Culture
Il libro del generale Vannacci: militari sull’orlo di una crisi di identità
Il generale Vannacci non è fascista, non è omofobo, non è razzista ma non è neanche un pensatore e qualcosa nella sua opera non torna
Vannacci scrive anche pagine da uomo della strada: “Dove si trova lo Stato quando il malvivente è già entrato nella mia camera da letto con una spranga in mano e minaccia me e la mia famiglia. Perché non dovrei essere autorizzato a sparargli, a trafiggerlo con un qualsiasi oggetto mi passi tra le mani o a catapultarlo giù dalle scale o dalla finestra dalla quale sta tentando di entrare e renderlo per sempre inoffensivo. Claudia Fusani, che come molti altri oltranzisti in ogni trasmissione si schiera contro il possesso di armi cosa propone? Se non posseggo un’arma, almeno quale extrema ratio, cosa posso fare? Quale sarebbe l’alternativa dell’onesto cittadino? Aspettare, arrendersi e pregare che i malviventi siano magnanimi? Dar loro tutto quello che chiedono? E se oltre ai soldi, gioielli e valori che mi sono costati anni di sacrifici e di onesto lavoro volessero anche farsi una sveltina con mia moglie o con mia figlia minorenne?”
In fin dei conti la cosa che fa più sorridere, e tenerezza, è proprio la sua apparente fiducia nella collettività, nel sistema democratico in cui vive, che lo porta a scrivere un libro del genere e ad esprimere le proprie idee invece di eseguire quelle degli altri. “Al solito”, ammette, “è stata la natura stessa del mio carattere a vincere, la soddisfazione di dire apertamente e direttamente quello che penso senza troppi diversivi e accettando serenamente le conseguenze della mia manifesta sincerità.”
Vannacci appare da una parte come la plastica rappresentazione di un militare, che immaginiamo si sia trovato tutta la vita ad eseguire ordini o a darli, e dall’altra come un’uomo del nostra epoca devastata dagli opinionisti televisivi della società dello spettacolo. Il generale non è un pensatore, un filosofo ma un uomo d’azione che forse non capisce più la società in cui vive, per le contraddizioni e la complessità che si porta dentro, dove le questioni acquisiscono senso solo seguendo una forte impronta ideologica che lui non condivide.
Ma rimane inevasa la domanda: perché non ha scritto un libro tecnico sul suo mestiere ma da opinionista televisivo? In Italia abbiamo visto medici fare i cantanti, virologi i commentatori tv, comici fondare partiti di governo, magistrati diventare amministratori pubblici e contemporaneamente segretari di partito, e così anche gli imprenditori, i cooperatori, i professori universitari, i giornalisti, eccetera.
Se in tv sfilano showgirl e virologi, a fare i pensatori, raggiungendo le vette di pensiero che abbiamo visto anche durante il Covid chiunque può pensare che è interessante esprimere le proprie opinioni, anche se non ha specifiche competenze in materia.
Non è che il generale vuole, anche legittimamente e per motivi che non conosciamo, fare altro nella vita? Nella società dello spettacolo c’è sempre da temere che la malattia che di recente ha colpito i virologi in tv possa aver contagiato anche gli uomini in divisa, visto che di recente i graduati, come nel caso del generale Figliuolo, vengono utilizzati per sbrogliare matasse.