Culture
"Il Mangiateste" di Samuel Giorgi, esordio thriller alla Stephen King

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LA TRAMA - Un tranquillo paesino di montagna. Tredici suicidi in meno di un anno. Un’antica superstizione che semina terrore. In un paese della Val d’Ossola, una lunga sequenza di suicidi ha gettato nel panico la comunità e ha lasciato la polizia senza risposte. Al caso si interessa Luna, giovane detective dotata di un intuito particolare; mentre cerca di fare luce sulla vicenda, si imbatte in antiche superstizioni che alcuni collegano al responsabile di quell’orrore. E qualcuno gli ha già dato un nome: il Mangiateste. Nel frattempo, a Villa Luce, la clinica che in paese ospita soggetti con problemi psichici, sembra emergere un’altra interpretazione dei fatti: questa coinvolge alcuni pazienti gravi rinchiusi in un’ala dell’istituto di cui sono a conoscenza solo in pochi. Con l’aiuto degli altri membri della squadra, rischiando di essere travolta da quest’ondata di follia suicida, Luna porterà a galla una drammatica vicenda del passato, per la quale qualcuno sta consumando poco alla volta la sua vendetta.

L'AUTORE - Samuel Giorgi è nato a Milano nel 1968. Laureato in Lingue e Letterature Straniere, quando non scrive o legge thriller, gialli e noir, si occupa di insegnamento della Lingua italiana e di formazione in ambito interculturale. Vive in un piccolo comune del Parco del Ticino con la moglie e i due figli. Il Mangiateste è il suo primo romanzo.
LEGGI SU AFFARITALIANI.IT IL SECONDO CAPITOLO
copyright © 2011 by Samuel Giorgi
Per accordo di Thesis Contents S.r.l. Firenze – Milano
Ormai ci ero abituata. Non mi dava nemmeno più fastidio. Era diventato un gioco. Quando sei fatta come me hai solo due possibilità: ti rodi il fegato per tutta la vita, oppure ti ci diverti. La questione è che per strada la gente mi fi ssa. Non è come succede alle fotomodelle, altrimenti non starei qui a raccontarlo. Ma non è niente di straordinario, non questo perlomeno. Sono solo un po’ insolita. Direi una specie di cencio scolorito, un panno da pavimenti lavato con candeggina concentrata. Sono smunta, magra e pallida molto più del normale, tanto da confondermi facilmente con i tizi che vado a trovare sui lettini di metallo degli obitori. Ho anche i capelli sbiaditi (e questo forse è un po’ colpa di come li tratto), ma non bianchi, che al limite sarebbe anche intrigante. Sbiaditi e basta. Su di me è come se in un tempo lontanissimo i colori ci fossero stati, ma avessero deciso di scivolar via lasciandosi dietro poco più di un’ombra. Era evidente che facessi una certa impressione, un po’ come quei vecchi seduti sulle panchine dei parchi che si fatica a capire se siano vivi o morti, immobili con gli occhi fi ssi e la bocca socchiusa, come se la vita e il sangue avessero cessato di scorrervi dentro. Come dicevo, ci ero abituata. Solo che, adesso erano in tre a fi ssarmi. Anzi in quattro, considerando anche il vecchio paralitico che avevano piazzato nel posto riservato, alla destra della porta dello scompartimento. E, in quel momento non avevo molta voglia di giocare. Avevo troppe cose per la testa. Soprattutto dovevo ripassare il programma, le istruzioni di Widmann e le note raccolte in quelle settimane attraverso il lavoro degli altri ragazzi. La cosa importante, tuttavia, era non perdermi la fermata giusta: rischio sempre di fi nire nei depositi di tram o treni, quando “mi spengo” per concentrarmi. Oltretutto mi succede spesso, considerato che viaggio quasi solo con i mezzi pubblici. Non uso quasi mai né aereo né macchina, mi fanno entrambi troppa paura. Widmann dice che le mie stranezze, persino le mie paranoie, sono perfette così, che è tutto coerente col quadro generale, che non devo cambiare una virgola di come sono. Se lo dice lui. Comunque, era la prima volta che Widmann mi mandava fuori da sola. Fino ad allora mi ero sempre mossa unicamente in coppia, con un altro dei ragazzi (siamo tutti giovani al laboratorio). C’è da dire che quella di mandarmi da sola non era stata una scelta intenzionale: alla fi ne, per un motivo o per l’altro, si erano tirati tutti indietro e, considerato che nelle fasi preliminari Widmann rimaneva sempre in disparte, e che comunque era un caso interessante, mi aveva fatto comprare un solo biglietto. Loro sarebbero arrivati qualche giorno dopo. Lo dico non perché io sentissi il bisogno di compagnia (Dio me ne scampi), ma perché al momento mi ero fatta l’idea che i miei cari colleghi avessero un po’ di remore (se non timore) nell’affrontare una situazione del genere. Vista la natura del nostro lavoro, la cosa mi sorprendeva parecchio: noi siamo gli esperti dei “casi strani”, il nostro intervento è richiesto proprio per le situazioni più insolite e complicate. Siamo un team esterno di ricercatori e analisti specializzato in misteri insolubili al limite del “normale”. O almeno questo era quello che avevo capito del mio mestiere nei pochi mesi trascorsi da quando avevo cominciato. Per questo all’inizio feci davvero fatica a giustifi care la loro reazione. Perché tanta apprensione? Ovviamente nessuno di loro lo ammise mai, ma è ben diffi cile che io mi sbagli in certe cose. Le loro scuse, seppure ben motivate, non riuscivano a celare del tutto il timore di doversi tuffare nella melma stagnante dei tredici suicidi di Grazzeno. Il suicidio è di per sé quanto di più semplice l’uomo possa compiere nel corso della propria misera esistenza, sempre che sia in possesso delle facoltà fi siche per farlo. Per questo è anche una delle cose che l’uomo sceglie meno volentieri. Ho sempre pensato che se l’umana specie è quello che è, lo deve al fatto che per istinto ricerca in ogni cosa la complicazione piuttosto che la semplicità. Ci deve essere sempre un “altro”, un “oltre”, dietro a quello che si sta vivendo: la volontà divina, la fortuna, il destino, gli spiriti, il giudizio del mondo, le presenze occulte, le ombre. Per questo è diffi cile staccare la spina da soli. Cosa potrebbe accadere? Cosa penserebbero di noi? Cosa sarebbe dei nostri cari? Cosa sarà di noi dopo un atto del genere? Solo la follia è uno stato di pura semplicità. E forse è proprio per questo che, da sempre, i pazzi sono quelli che si ammazzano più volentieri. Quello che ai ragazzi faceva paura a Grazzeno, credo, era l’idea che una specie di delirio collettivo o di maledizione si fosse abbattuta sul paesino della Val d’Ossola, inducendo in poco meno di un anno tredici persone a togliersi la vita. Erano a tutti gli effetti dei veri e propri suicidi, tutte le prove lo confermavano. Non poteva esserci nessun sospetto che qualcun altro, oltre alle vittime stesse, avesse causato i decessi. Le indagini della Polizia non avevano condotto a nessun’altra spiegazione. Eppure non poteva essere. In poco più di cinque chilometri quadrati, così tante persone, in un tempo così ravvicinato (una, anche due al mese), avevano deciso di togliersi la vita, in modo tanto cruento. E senza che sulle scene dei decessi si fosse rinvenuto il minimo collegamento tra i tredici eventi. Cosa più sbalorditiva: a quanto pareva (ma questo era ancora tutto da dimostrare), nessuna delle vittime soffriva di particolari turbe psichiche.
(continua in libreria)