Culture
In libreria "Il miglior tempo" di Guido Meda

Forse siete un po’ come me che non vedo l’ora di passare dalla parte del volante anche se mancano dieci anni che a scorrere ce ne metteranno almeno cento. Perché, quando sei piccolo, ti sembra impossibile diventare grande. È una cosa lontanissima. Ma interessante, soprattutto per quel fatto lì che a un certo punto si può guidare, anche tutti i giorni. Il miglior tempo segue le o rme d i un uomo che è cresciuto giocando con le automobili, si diverte a sfidare i limiti e da sempre cammina in bilico tra motori e donne (ma non tra donne&motori). Nella sua vita i primi – macchine, motociclette, aerei – sono tradizione familiare, lavoro, hobby, addirittura mania, culto, autocoscienza. Le seconde, invece, sono le nonne, la tata, la madre, la moglie, le figlie, le amiche, tutte figure femminili sagge e pazienti, loro sì rispettose dei limiti, capaci di curare le ferite ogni volta che il gioco si fa troppo pericoloso. Ed è proprio nell’equilibrio tra ragazzate e perdono, tra fughe liberatorie e carezze di conforto, che bisogna cercare il tempo migliore e che si raccontano le storie più belle… C’è il ricordo mitico della Millemiglia del ’56 a bordo di una Fiat 1100-103 Zagato, gioiosa ma estenuante anarchia automobilistica. C’è la birichinata incendiaria di un bambino che rimette in moto una Renault Dauphine del ’58 abbandonata. C’è la corsa forsennata di un Piaggio Sì 50 cc nelle vie di Milano per seminare qualcuno che ha cattive intenzioni. C’è un Cessna 172 che perde l’orientamento. C’è una notte d’amore in cui viene concepita la più bella delle automobili. C’è un viaggio in moto per assaporare il piacere della paternità. C’è una donna che tappezza cruscotti Fiat di stoffa a fiori. Ma, nonostante questo, è da sposare. C’è il Sic con la sua voglia di abbracciare. E Valentino quando era bambino. E c’è la guerra dichiarata a un vigile urbano. In questo libro sorprendente, sospeso tra realtà e sogni, tra riso, paura e nostalgia, Guido Meda ha saputo dare senso a una passione assoluta. Che è anche la voglia tutta maschile di vivere con leggerezza. Di partire per una scorribanda sapendo di poter sempre tornare sotto un tetto sicuro.
LEGGI SU AFFARITALIANI.IT UN ESTRATTO (IN CUI SI PARLA DI VALENTINO ROSSI...)
(per gentile concessione di Rizzoli)
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Valentino in pista è cannibalesco e spietato, giù dalla moto invece se non lo freghi non ti frega. Conosce le regole del gioco molto bene e sa di cosa hanno bisogno i giornalisti, ma pone un confine oltre il quale senza fiducia non si passa. È quello dei giudizi morali, delle valutazioni superficiali, delle violazioni dell’intimo. Ci salutammo per rivederci poi a qualcuno dei test invernali, ciascuno nella propria veste.
Lui protagonista, io raccontatore. Tornando a casa, pensai che quell’episodio sarebbe stato un buon pezzo da scrivere. Ma in quel momento non potevo, né avrei svenduto un momento privato per farne un facile scoop. Ma ora, dopo tutti questi anni passati a raccontare, spesso gridando, la fase extralarge della vita di Valentino, mi piacerebbe risalire alla genesi, al suo miglior tempo.
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Nato il 16 febbraio del 1979, il biondino in questione porta il nome di un amico di suo padre Graziano, morto annegato in mare. Dunque è come un simbolo di ricordo e amicizia. Se fosse nato femmina, il biondino si sarebbe chiamato Benedetta o Martina. E ci saremmo persi qualcosa. Ok, l’amico di Graziano si chiamava Valentino. Il biondino si chiama Valentino. Un sabato, in tempi recenti, ho incontrato Stefania, sua madre, a un Gran Premio. Era con Luca, il suo secondo figlio, a seguire Valentino. L’ho vista infilarsi in macchina, estrarne una pallina di gomma colorata di quelle che rimbalzano e regalarla a Luca. Luca, che sta studiando da pilota con ottimi risultati, l’ha guardata e le ha detto con un filo di spocchia da adolescente: «Be’, cosa me ne faccio?».
«Ci giochi. Ti piace, ne sono certa» ha risposto Stefania. Non so se Luca si sia vergognato del fatto che sua madre davanti a me gli avesse regalato una pallina di gomma, ma so che cinque minuti dopo senza accorgersene la lanciava sui muri, per terra, ovunque potesse nascere un rimbalzo. «Sembra che tu conosca proprio bene i tuoi figli» le ho detto. «Anche le stelle dicono che il mio destino è quello di gestire patti di sangue. E i miei patti di sangue sono loro.» «Quando Valentino è in tv che corre o che parla» le ho domandato ancora, «tu vedi il campione o il tuo bambino?» «Vedo il mio bambino e capisco dalle espressioni e dal tono della voce se è contento o se è triste.» «Mi racconti come è andata? Com’era quando noi non sapevamo nemmeno che esistesse, intendo. Quando eri incinta e per quel che ne sapevi poteva nascere una Benedetta o una Martina.» «Non ero mica pronta per una femmina» ricorda Stefania. «Nel 1978 ero molto giovane e col pancione pensavo che a una figlia non avrei saputo guarnire i capelli coi fiocchetti né comprare i vestitini graziosi. Da piccola non mi ero nemmeno potuta allenare con le bambole come le altre bambine. L’unico vero bambolotto della mia infanzia era stato un maschio pure quello, si chiamava Paolo ed era grosso e brutto.» Per fortuna poi le sarebbe nato il maschio, un bimbo molto bellino, con gli occhi azzurri e vispi che ancora adesso brillano della stessa luce. Era uno di quei figli che certe mamme farebbero carte false per infilarli nella pubblicità. E neanche a recitazione avrebbe sfigurato. Era un bambino che sapeva il fatto suo, veniva accompagnato sì nei primi passi della sua vita, senza però che nessuno gli imponesse realmente la strada. Fu chiaro da subito che uno così non si sarebbe mai perso. Anzi, che il verbo «perdere» non avrebbe fatto parte del suo vocabolario.
«A Valentino» mi racconta ancora Stefania «Graziano e io ponevamo solo dei confini comportamentali entro i quali si poteva muovere in assoluta libertà. Quando aveva tre anni il babbo gli regalò una motorina con le rotelle, dicendogli: “Se non ci sono io, non la usi”. Ecco, lui, per stare dalla parte del giusto ci gironzolava per il giardino spingendola a mano e imitando il rumore del motore con la bocca. Ma niente di più. Un giorno lo lasciammo a casa con la signora che si occupava di lui e dei lavori domestici. Lei faceva i suoi mestieri immersa nel silenzio, convinta che il bimbo dormisse. Invece no: stava smontando la minimoto, pezzo per pezzo. Non la usò, bisogna dargliene atto. Semplicemente la demolì sparpagliandola nel prato.» Valentino era figlio d’arte. Più che alla fama di un babbo esuberante, simpatico, eccentrico e talentuoso motociclista come Graziano, si interessava alle moto che gli si muoveva378 Stefania. È sempre stato un gioco no attorno nella realtà e nei discorsi. La piccola moto che Graziano gli aveva regalato perse le rotelle nel giro di quattro giorni. All’età in cui i bambini di norma usano il triciclo, quel biondino sapeva già andare in moto e dopo nemmeno una settimana era in grado di pestare sul freno posteriore per farla sbandare. Graziano era orgoglioso come poteva esserlo un padre che aveva rinunciato a fare il maestro elementare per correre. In quei primi tre anni di vita Valentino veniva portato di rado ai Gran Premi, giacché Graziano era uno spirito libero alle prese con uno sport all’epoca così pericoloso che non gli pareva nemmeno giusto coinvolgere la famiglia. Quando però capitava che Valentino si trovasse vicino a una moto da corsa ferma nel box, ecco che allungava le mani e ci si arrampicava a razzo. Aveva le braccia ancora troppo corte per arrivare ai manubri, così sedeva sul serbatoio e sbirciava fuori dal cupolino col muso vispo e sognante immaginando le curve, i rettilinei, gli avversari. Una volta Graziano lo portò con sé per una sorta di giro d’onore nel bel mezzo di una manifestazione motoristica. Il pubblico che li guardava passare applaudiva a un’immagine tenerissima, senza sapere che sulla moto oltre al consumato campione sedeva anche quello che sarebbe diventato uno dei migliori piloti di tutti i tempi. Al biondino, che era solo un bambino di quattro anni senza nemmeno il casco in testa, volavano i capelli e lacrimavano gli occhi per la velocità. Era il momento in cui nascevano nuovi rapporti di amicizia: con il padre, con le corse, con una nuova maniera di giocare. «Fino a quando» continua Stefania
«Graziano, che era sostanzialmente un pilota nomade, non si accorse che poteva giocare con suo figlio, lo avevo fatto io. Portavo il mio bambino al parco giochi o al mare. Vigilavo su di lui quando si scatenava nel prato con gli amici. C’era il piccolo Alessio, detto Uccio, che era suo coetaneo e lo proteggeva. Bastava che un bambino facesse un dispetto a Valentino, o che lui si mettesse a piangere, che Alessio partiva in sua difesa, menando certi schiaffi assurdi.» Stefania si interrompe, poi dice: «Eccoli!» indicando il box da cui Valentino e Uccio stanno uscendo. Come si vedrà, la loro è una storia nella storia. «Fare l’Uccio» è diventata una professione, molto più importante di quel che sembri. Nonostante una compagna e una figlia meravigliose, Alessio è rimasto l’amico di sempre. Il confidente. È la metà di Valentino che resta a terra, che studia gli avversari e i tempi. È la presenza nel box che conosce e anticipa i suoi riti. È colui che capisce quando l’assedio dei tifosi è eccessivo. È la guardia del corpo, l’autista del motorhome in giro per tutta Europa. Per un’osmosi che parte da molto lontano è con chiunque un interlocutore motociclisticamente competentissimo. È stato e continua a essere il compagno di giochi del campione. «Stavo dicendogli» riferisce Stefania a Valentino «che Uccio da piccolo menava gli altri bambini per difenderti. Parlavamo di te allora.»
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