“L’isola dei monaci senza nome”, anche in cartaceo il romanzo di Marcello Simoni - Affaritaliani.it

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“L’isola dei monaci senza nome”, anche in cartaceo il romanzo di Marcello Simoni

 

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LA TRAMA - 1544 l’armata del corsaro ottomano Barbarossa mette sotto assedio le coste dell’isola d’Elba. Lo scopo è liberare il figlio ventenne del suo generale delle galee, Sinan il Giudeo, tenuto in ostaggio dal principe di Piombino. Ma il vero interesse del corsaro non è il ragazzo, ma il terribile segreto che egli custodisce. Il figlio di Sinan ha scoperto infatti di essere l’ultimo depositario di un mistero risalente ai tempi di Gesù e in grado di minare, se rivelato, le basi della fede cattolica. Ma il segreto del Rex Deus è stato occultato per oltre due secoli ed entrarne in possesso sarà tutt'altro che semplice. Il giovane dovrà seguire un’antica pista di indizi lasciata da un monaco templare, destreggiandosi tra rivalità di corsari, intrighi di corte e battaglie navali. E dovrà anche sventare il complotto della loggia dei Nascosti, intenzionata a impossessarsi dell’antico segreto.

MarcelloSimoni

L'AUTORE - Marcello Simoni è nato a Comacchio nel 1975. Ex archeologo, laureato in Lettere, lavora come bibliotecario. Ha pubblicato diversi saggi storici e ha partecipato all’antologia 365 racconti horror per un anno, a cura di Franco Forte; altri suoi racconti sono usciti per la rivista letteraria «Writers Magazine Italia». Il mercante di libri maledetti, romanzo d’esordio, ha superato le 300.000 copie, ha vinto il 60° Premio Bancarella, è stato selezionato al Premio Fiesole 2012 ed è stato finalista al Premio Emilio Salgari 2012. I diritti di traduzione sono stati acquistati in dodici Paesi. Con la Newton Compton ha pubblicato anche La biblioteca perduta dell’alchimista.


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L’ISOLA DEI MONACI SENZA NOME
di Marcello Simoni

© Newton Compton editori

Isola d’Elba, 1 luglio 1544.
Il giovane Cristiano d’Hercole faceva scorrere lo sguardo sul tratto di mare che lambiva la mezzaluna di spiaggia compresa tra il golfo di Ferraio e la punta rocciosa di Capo Bianco. La calura del tardo mattino pareva accentuare il senso di attesa che gli ribolliva nel sangue, anche se lui si ostinava a nasconderlo, qua- si a combatterlo, mentre sfidava con i suoi occhi neri il bagliore del sole. Sotto il cielo terso sembrava non muoversi nulla, eccetto le onde con il loro infrangersi sulla costa delimitata da una folta macchia. Eppure sentiva qualcosa agitarsi nelle viscere, un presagio, come se fiutasse nell’aria l’incombere di un evento funesto. Che non tardò a manifestarsi.
Un boato rumoreggiò da levante come l’appressarsi di una tempesta. Non era un tuono, bensì un colpo di cannone. Cristiano si voltò d’istinto in quella direzione, cercando di immaginare cosa accadesse al di là dei promontori ammantati di verde, lungo le coste nord-orientali dell’isola, ma riuscì a udire soltanto altre cannonate accompagnate dal rintocco di allarme dei campanili. La torre della spiaggia di Rio si stava difendendo da un attacco proveniente dal mare.
Non gli restò che tenere a freno l’inquietudine e puntare gli occhi su Capo Bianco, finché non scorse la prua di una galea fare capolino oltre le candide pareti rocciose e virare verso l’insenatura di Ferraio. Era di grandi dimensioni, con un enorme rostro, cin- que cannoni montati sul tamburo di prora e due alberi con vele latine. Superò le sporgenze rocciose facendo mostra del suo profilo, almeno centosessanta piedi per oltre quaranta banchi di voga, la fiancata sottile e affilata come una scimitarra, la poppa rialzata in luogo della carrozza. Fendeva l’acqua con un’eleganza letale, resa ancor più temibile dalle insegne rosso-gialle sul pennone. La Mezzaluna dell’impero ottomano.
«La galea bastarda del Barbarossa!», esclamò uno dei due soldati alle spalle di Cristiano, pronunciando quel nome come se si riferisse al diavolo in persona.
E il ragazzo non poteva dargli torto. Khayr al-D ̄ın detto Barbarossa, al comando della flotta turca, era davvero malvagio quanto il re dell’inferno, e se gli si fosse presentata l’occasione non avrebbe senz’altro esitato a fargli visita per spodestarlo. Le terre dell’El- ba portavano i segni delle sue scorrerie, cicatrici che si rimarginavano soltanto per riaprirsi di nuovo, ancora e ancora, con sempre maggior dolore e spargimento di sangue. Cristiano non doveva certo sforzarsi per scorgere i segni di quella distruzione, ne aveva alcuni di fronte agli occhi. Dalla sua posizione elevata, un rilievo che dominava la costa, distingueva con chiarezza le rovine di abitati vicini. Tuttavia l’insenatura non era certo sguarnita di difese. Vi stazionavano tre galee spagnole affidate all’Elba dall’imperatore Carlo V per far fronte a nuovi attacchi. Erano anche presenti contingenti di terra appostati dietro fossati e palizzate, armati di picche, archibugi e bombarde, sebbene il grosso delle milizie spagnole trovasse quartiere dall’altra parte del mare, presso la città di Piombino, insieme alle truppe del duca di Firenze.
Non appena la galea bastarda varcò lo stretto del golfo si scatenò l’inferno. I primi ad attaccare furono i soldati di terra, mettendo mano alle bombarde per dare tempo alle navi spagnole di orga- nizzare l’offensiva. L’ammiraglia ottomana virò di babordo, of- frendo la prua alla costa, mentre la flotta al suo seguito irrompeva a voga arrancata in quel tratto di mare. Cristiano perse il conto dopo il decimo legno che vide entrare nel golfo. Era un’armata impressionante, per lo più galee affiancate da agili fuste, ma a stu- pirlo fu la presenza, seppure appartata, di navi francesi.
L’ammiraglia del Barbarossa fece fuoco con un cannone di prua contro un assembramento di artiglieri appostati a riva, spazzandoli via con un boato assordante. L’azione fu subito imitata dalle altre galee turche, che si disposero lungo la costa e riempirono l’aria con le scariche delle loro colubrine, e nel frattempo lasciarono libero passaggio alle imbarcazioni più piccole e celeri.
Le tre navi spagnole si trovarono a fronteggiare l’avanzata delle fuste. Le prime due furono subito circondate e ridotte all’impotenza, ma la terza riuscì a eludere la manovra di accerchiamento e fece rotta verso l’ammiraglia del Barbarossa, ancora intenta a infierire sugli uomini appostati a riva. Aveva una forma bombata, con la camera di voga scoperta. Non poté neppure avvicinarsi. Una bireme turca la intercettò con largo anticipo e, anziché prenderla di sperone, le si affiancò sul lato di dritta per esporla al tiro degli archibugieri appostati sulle sue balestriere. La raffica degli spari mieté vittime tra i remieri, compromettendo la potenza di voga della galea spagnola. Ma a infliggerle il colpo di grazia fu una seconda fusta in avvicinamento veloce sul suo lato di sinistra. La prese a cannonate, facendo saltare in aria i fasciami dello scafo e il castello di poppa, dopodiché la speronò, sfondandole la fiancata.
Il risuonare dello schianto si udì distintamente fino alla postazione elevata in cui si trovava Cristiano. Il ragazzo sentì un tremito corrergli lungo la schiena e portò d’istinto la mano al suo pugnale assicurato al fianco. Vide i corsari turchi accalcarsi sulla rembata, in attesa di balzare sul ponte della nave nemica, ma prima ancora udì una seconda scarica degli archibugieri appostati sulle garitte. Gli spagnoli non si lasciarono cogliere impreparati e risposero al fuoco, arretrando verso prua per organizzare la difesa. Non si trattava di ragazzini imberbi, ma di tercios della marina spagnola armati fino ai denti. Al contrario, a bordo della fusta trovavano posto soltanto ghazi e azap, venturieri e mercenari. I soldati regolari della flotta ottomana, i temibili e disciplinatissimi giannizzeri, assistevano allo scontro dalle più capienti galee.
Gli arrembatori turchi si gettarono sul ponte della nave spagnola senza rispettare né ordine né gerarchia, un’orda di diavoli dalle teste avvolte nei turbanti, magri e agili come scimmie. Si scagliarono sui tercios brandendo scimitarre, mezze picche e rampini metalli- ci. Una raffica di archibugi spagnoli ne annientò la prima ondata, facendone precipitare molti in mare, poi l’assalto all’arma bianca prese il sopravvento e straripò verso la zona di prua, trasformandosi in un combattimento senza quartiere. Cristiano poteva scorgere chiazze di sangue sempre più estese sui camminamenti delle garitte e delle balestriere, mentre tendeva le orecchie per cogliere le grida di battaglia sommerse dal rimbombo dei cannoni, ma abbastanza forti da esercitare su di lui un richiamo irresistibile.
Una mano si posò sulla sua spalla, distogliendolo dal macabro spettacolo.
«Vossignoria, non possiamo restare oltre», gli disse un soldato. Aveva il volto sudato, gli occhi sbarrati dall’allarme e dallo spavento. «L’ordine è di tenervi al sicuro, ed entro breve questa po- stazione non sarà più tale».
«Ancora un attimo», insistette il giovane, eccitato dalla foga dello scontro.
«Fossi in voi romperei gli indugi», intervenne il secondo soldato, facendogli notare cosa stava accadendo proprio sotto di loro. Un grappolo di scialuppe corsare si era staccato dalle galee e aveva già raggiunto la spiaggia, sbarcando a riva contingenti di giannizzeri e soldati a cavallo. Non appena misero piede sulla rena, quegli uomini si gettarono all’attacco contro quanto restava delle formazioni spagnole, dilagando verso l’entroterra come un incontenibile formicaio.
Di fronte all’imminente minaccia, Cristiano acconsentì ad an- darsene. Non prima, però, di aver lanciato un ultimo sguardo verso la galea spagnola vittima dell’arrembaggio. I corsari avevano ormai avuto la meglio, ciò nondimeno si accanivano con ferocia contro i pochi nemici rimasti. Continuavano a farne strage, estranei alla pietà e all’onore che avrebbero dovuto indurli a risparmiare gli sconfitti.
Il ragazzo non esitò oltre e si avviò con i due soldati verso un vicino castagneto, dov’erano assicurati tre cavalli, e dopo essere salito in sella a un baio si lanciò al galoppo lungo un sentiero che serpeggiava tra gli alberi.
«Alla rocca del Volterraio», annunciò.
Mentre si allontanava a spron battuto con la scorta al seguito, non poté evitare di interrogarsi sulla causa di tanta violenza. Il Barbarossa non aveva sfidato l’Elba per una semplice razzia. Era venuto proprio per lui, come già aveva tentato di fare l’anno pre- cedente. E questa volta – ne era certo – non se ne sarebbe andato a mani vuote. L’avrebbe portato via con sé.
Ma il rovello di Cristiano era un altro, una domanda che lo tormentava da mesi senza trovare risposta. Cosa voleva da lui il grand’ammiraglio della flotta ottomana?
Il ponte dell’ammiraglia tremava a ogni scarica di cannone, facendo sobbalzare i componenti della ciurma. L’unico a mantenersi ben saldo sui piedi era Khayr al-Dı ̄n Barbarossa, affacciato a una balaustra nei pressi della carrozza di poppa come se niente fosse. Il vecchio Sinan lo individuò quasi subito, nonostante vedesse da un occhio solo, e si affrettò a raggiungerlo attraverso un viavai di artiglieri e nuvole di polvere pirica. Man mano che si avvicinava a lui, sentiva crescere dentro di sé il nervosismo. Lo conosceva da alcuni decenni, eppure non aveva ancora smesso di temerlo. E ciò lo feriva nell’orgoglio, perché lui stesso non era certo un uomo da meno, capace di infondere, all’occorrenza, un giusto terrore.
Ma Khayr al-Dı ̄n era per lui l’autentica personificazione della paura. Ancora imponente nonostante l’età avanzata, aveva occhi lucenti e un volto bruciato dal sole che sprofondava in una barba cespugliosa tinta di rosso con l’henné. Un diavolo uscito dall’inferno, per i cristiani, reso maestoso dal turbante bianco e dalla zimarra dorata stretta alla vita da una cintura da cui pendeva una scimitarra. La sua voce profonda e il suo incedere sicuro suscitavano un tale spavento da aver indotto ben più di un nemico alla resa immediata, senza neppure provare a sfidarlo. E tuttavia, più ancora dell’aspetto, a rendere temibile quell’uomo era la sua propensione all’inganno e alle azioni imprevedibili, capace di indurlo a tramutare un atto di clemenza in una condanna a morte.
Quando Sinan lo raggiunse, il Barbarossa si trovava in compagnia di un uomo dai capelli castani con indosso l’uniforme dei Cavalieri di Malta, più basso di lui di un paio di spanne e dall’aria distinta. Leone Strozzi, condottiero fiorentino ai servizi della corona francese, aveva ricevuto l’incarico di accompagnare come ambasciatore l’armata di Khayr al-Dı ̄n fino a Costantinopoli, per dimostrare al sultano l’appoggio offerto da Francesco I di Francia all’impero ottomano. Di solito trovava alloggio nella sua galeazza dalle vele rosse, la Lionne, in testa a una flottiglia di cinque legni salpati dalla Provenza, ma doveva essere salito a bordo dell’ammiraglia turca per conferire con il suo spietato capitano. E benché fosse un cane infedele, dava prova di coraggio comportandosi con disinvoltura al suo cospetto.
Entrambi gli uomini osservavano l’assalto di terra e commentavano in francese, ad alta voce, per evitare che le loro parole venissero coperte dal boato dei cannoni. Non appena il Barbarossa si accorse di Sinan, interruppe il discorso e gli rivolse il saluto in lingua turca: «Finalmente posso godere della compagnia di uno dei miei più valenti generali».
Il vecchio pirata accennò un inchino, ma restò all’erta. Nei momenti in cui Khayr al-Dı ̄n si mostrava affabile, stargli accanto era ancor più rischioso.
«A cosa devo la vostra convocazione, mio grandissimo amír?», chiese, quasi gridando, per opporsi al frastuono di una nuova scarica di colubrine.
«È giunto il momento che mi riveliate il vostro segreto», rispose il Barbarossa.
Sinan rimase un attimo in silenzio, fissando l’espressione incuriosita del cavaliere di Malta. Sapeva che lo Strozzi non conosceva la lingua ’osmanlï, ciò nondimeno si trovava a disagio ad affrontare certi argomenti davanti a lui. Quell’uomo aveva uno sguardo pro- fondo, intelligente, e in diverse occasioni gli aveva dato l’impressione di capire ben più di quanto desse a intendere. Poi si decise a parlare, l’amír non amava restare sulle spine.
«Vi svelerò ogni cosa, come promesso, ma prima dovrete tenere fede al patto».
Il Barbarossa aggrottò le folte sopracciglia.
«E non lo sto forse facendo?»
«Al momento state prendendo l’Elba, ma di mio figlio non vedo neppure l’ombra».
«Presto ci verrà consegnato, lo giuro sul Profeta. Ho inviato un ambasciatore al principe di Piombino. Se vuole che la sua isola resti intatta, gli conviene dirci dove tiene nascosto il ragazzo».
«Se ciò avverrà, la mia lingua si scioglierà come la coda di un serpente».