Simbolismo: una chimera tra Belle Époque e Grande Guerra
di Raffaello Carabini
Ha senso riscoprire il simbolismo oggi? Forse sì, se si crede alla necessità di “gettare lo sguardo più in là, per cercare il nuovo, il diverso, il non ancora conosciuto”, come vuole il sindaco di Milano uscente Giuliano Pisapia. Un po’ meno, se si guarda a una realtà di radicalizzazione, di manicheismo, di violenza, cui è probabilmente indispensabile rispondere con la forza di un’arte che non faccia dell’indeterminatezza e del sogno, dell’introspezione visionaria e del puro immaginifico il proprio linguaggio.
Comunque una rassegna come quella aperta fino al prossimo 5 giugno a Palazzo Reale, proprio di fianco alla Madonnina, intitolata “Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra”, se da un lato apre ancora una volta il dibattito sulla necessità “politica” del ruolo dell’arte – ovvero sul significato della scelta di una programmazione espositiva e sulla struttura stessa della sua narrazione – dall’altro porta con sé nuove considerazioni su un movimento che tale non fu.
La sfilata di circa 150 opere provenienti da musei e collezioni di mezza Europa ci immerge nel clima culturale e sociale di un periodo storico che rispondeva per le rime al positivismo, al materialismo, alla scienza, che avevano dettato la svolta epocale della rivoluzione industriale, di cui si godevano i benefici del progresso trionfante, ma insieme se ne criticavano aspramente le premesse ideologiche.
Non è il rifiuto della modernità, ma la fase più frustrante che la crescita induce, giusto un attimo prima della catastrofe (che puntualmente si verificò con la mattanza del 1914/18), l’indicatore più immediato di una grave crisi, dettata dall’incapacità di avere punti di riferimento di fronte alle incertezze dettate da Charles Darwin, con l’uomo bruscamente privato del ruolo di prim’attore nell’evoluzione, e da Sigmund Freud, che mostrava tutti come incapaci di dominare le pulsioni interiori.
Il simbolismo diventa così l’arte del pre-disastro, dell’inaferrabilità del certo, del vagare senza meta in territori senza fine con intenti senza costrutto. Per questo le 19 sezioni tematiche della mostra introducono a mille contraddizioni e ad altrettanti scontri stilistici. Che c’azzeccano i “polipi difformi di Odilon Redon con il polittico “Le vergini savie e le vergini stolte” di Giulio Aristide Sartorio? Cosa il post-liberty di Wilhelm List e di Giorgio Kiernek con il pre-surrealismo di Félicien Rops e di Gustave Moreau? Oppure il piatto rigore dei Nabis con la ridondanza decorativa dell’immaginifico Vittorio Zecchin? Oppure ancora le enormi e magnifiche tele del ciclo “Il poema della vita umana”, che vogliono essere dei “trompe-l’oeil” di bassorilievi classici, ancora di Sartorio con le pennellate lunghissime dei divisionisti Gaetano Previati e Giovanni Segantini? Oppure i colori ridondanti di Gaetano Chini con gli ironici bozzetti in china di Alberto Martini?
Certo tutti vogliono raffigurare i mostri (e anche le sensuose bellezze) creati dal sonno della ragione, tutti rivolgono lo sguardo dalla parte opposta, verso l’interno, rispetto ai cercatori dell’impressione, tutti sono inquieti e turbati come gatti finiti per sbaglio – dopo un qualcosa che loro non è appartenuto – in mezzo all’autostrada di un sentire arcano e misterioso, ma...
I curatori non riescono a trovare un filo narrativo unitario e ci mettono così di fronte alla spezzettata rappresentazione di un “pensiero debole”, che, seppure voglia proporci, “penetrando anche nel territorio dell’inconscio, i grandi valori universali dell’umanità: il senso della vita e della morte, la fantasia, il sogno, il mito, l’enigma, il mistero”, come afferma Fernando Mazzocca, ci appare miscuglio – solo talvolta affascinante e stimolante – tra decadenza agonica e genialità lunatica, una tavola imbandita di frutta lucidata con la gommalacca con solo rare tracce di primi e secondi piatti.
Purtroppo tra un taglio prospettico e l’altro si perde di vista quella che voleva essere la nuova epica genuina della stagione che stava dimenticando l’impressionismo e si stava affacciando sulle grandi avanguardie e a cui dovremmo guardare con attenzione e distacco insieme. Però a Palazzo Reale non solo non ritroviamo un’“arte per l’idea”, come quella che divulgavano i coevi Pellizza da Volpedo e Angelo Morbelli, ma neppure una solida idea di arte.
Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano
fino al 5 giugno
Orari: lunedì 14,30/19,30; martedì-venerdì ore 9,30/19,30; giovedì 9,30/22,30
Info tel 0041 (0)586883350 www.museo.mendrisio.ch
Ingresso: 12 euro (ridotto 10) con audioguida inclusa
Catalogo: edizioni 24 Ore Cultura
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