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Davide Shahhosseini: “Il dissenso senza leader in Iran favorisce i pasdaran"
I valori del regime degli ayatollah sono inconciliabili con le aspirazioni della generazione z iraniana
Le proteste oltrepassano tutte le differenze etniche, linguistiche, di genere e di classe
Davide Shahhosseini, 33 anni, italiano di origini persiane, vive a Milano. Esperto di politica internazionale, è un grande conoscitore delle vicende dell’Iran, dove risiedono molti componenti della sua famiglia. Suo padre è arrivato in Italia negli anni 80. Come era la situazione allora in Iran?
Mio padre si è trasferito in Italia nel 1980 per continuare gli studi in medicina. Difatti, i primi anni 80’ per l’Iran rappresentarono un’eccezionale quanto complessa e drammatica fase di transizione, tanto sul piano politico quanto socioculturale: il rientro in patria dell’ayatollah Khomeini, il 1° febbraio del ‘79 dopo 13 anni di esilio, segna la caduta della dinastia dei pahlavi e la nascita della Repubblica islamica che conosciamo oggi.
Dalle morte di Mahsa Amini lo scorso settembre all’impiccagione dei giorni scorsi dell’ex viceministro Alireza Akbari, cittadino iraniano-britannico, giustiziato come spia per i servizi segreti del Regno Unito. L’orrore sembra non avere fine.
La morte di Masha Amini è divenuta l’emblema delle proteste che stanno mettendo a dura prova il sistema repressivo del regime. Quanto accaduto a questa giovane ragazza rappresenta l’apoteosi della contraddittorietà della teocrazia iraniana: il 2°comma dell’articolo 21 della Costituzione rivoluzionaria prevede testualmente “la creazione di condizioni che favoriscano lo sviluppo della personalità della donna e la reinstaurazione dei suoi diritti nella sfera materiale e spirituale”. Mahsa forse ha pagato, ad un prezzo più caro rispetto alle sue concittadine, il fatto di aver sviluppato una personalità propria, non in linea con quel modello di femminilità omologato e imposto dall’autorità teocratica.
Quale la vera ragione di tutto questo?
Ciò a cui stiamo assistendo oggi in Iran è il materializzarsi, attraverso la protesta e il dissenso, della frattura, sempre più marcata e insanabile, che c’è tra la “prima generazione”, quella che ha subito la rivoluzione, passivamente e/o ingenuamente, e i discendenti di quest’ultimi, in una complessa fase di transizione generazionale. I giovani e le giovani iraniani, di ogni provenienza sociale, non vogliono più sottostare a un modello di società promotrice di codici valoriali inconciliabili con gli ideali e le aspirazioni della generazione Z iraniana. A differenza delle proteste del passato, quasi sempre circoscritte a pochi attori che si intervallavano nell’assumere il ruolo di oppositori (gruppi sociali; minoranze etniche; classi lavoratrici), quella di oggi si configura come una grande manifestazione trasversale e inclusiva. Si tratta di una forma di resistenza che oltrepassa le differenze etniche, linguistiche, di genere, di classe, che caratterizzano la società iraniana, fondendosi in una combinazione di più lotte, tutte connesse ad unico obiettivo: la fine della Repubblica islamica. Un’altra peculiarità è l’assenza di un leader alla guida di questo dissenso. In quello che appare sempre più come un fenomeno guidato dalla spontaneità e dall’esasperazione delle fasce più giovani, che si è, più o meno uniformemente, esteso a livello geografico, fino a coinvolgere Qom – città natale di Khomeini e luogo sacro sciita -, la componente femminile assume piena centralità, facendo da collante a tutti gli altri segmenti della società che hanno un conto aperto con il regime.
Quando finirà il regime?
Difficile dirlo. Possiamo cercare di tracciare una traiettoria evolutiva degli eventi in base a ciò che osserviamo nell'attuale terreno di scontro. Se analizziamo l’intensità delle proteste e di come queste non abbiano dato alcun segno di cedimento a fronte tanto della risposta violenta – arresti ed esecuzioni sommarie - quanto conciliatoria del regime – vedi aperture sulla legge sull’hijab - emerge chiaramente quella spontaneità che è alla base di queste proteste e che, per sua natura, non ammette compromessi. Tuttavia, se è vero che la repressione non ha soffocato quell’istintivo desiderio di libertà e di cambio radicale al vertice, l’assenza di una leadership e di un’organizzazione che inquadrino il dissenso in un ipotizzabile percorso politico post-rivoluzionario, complica ogni previsione circa come potrebbe mutare l’attuale architettura istituzionale al venir meno del dominio teocratico. Rispetto a quest’ultimo punto, è importante guardare all’evoluzione dei rapporti e alle dinamiche di potere tra “prima generazione”, i cosiddetti “patriarchi” ovvero coloro che hanno guidato il 79’, e quella “seconda generazione” rappresentata dall’oligarchia militare figlia della rivoluzione, che dal momento della sua istituzionalizzazione (costituzione delle “Guardie Rivoluzionarie” o pasdaran) ha visto accrescere il proprio ruolo nel sistema di potere, quest’ultimo non più limitato alla sicurezza nazionale, bensì esteso a settori chiave della pubblica amministrazione e dell’economia del paese: alimentare, gestione del mercato delle materie prime, amministrazione della grande industria. Dunque, paradossalmente, se da un lato le proteste dovessero riuscire nel loro intento di sovvertire la teocrazia, dall’altro questo potrebbe accelerare quella transizione generazionale tra patriarchi e apparati militari, dove quest’ultimi, alla luce dello spessore che hanno acquisito nel dualismo istituzionale con l’apparato clericale, potrebbero approfittare sia del vuoto di potere lasciato da quest’ultimo, sia del fatto che le proteste non siano, ad oggi, canalizzate in un chiaro percorso politico, per insidiarsi alla testa della nuova architettura istituzionale. In ultimo, in caso di rovesciamento dell’autorità teocratica, quello dell’apparato militare rappresenterebbe comunque un problema sociale. Tra pasdaran, esercito regolare e organismi paramilitari (basiji), si contano più di un milione di individui, gli stessi indottrinati agli ideali rivoluzionari, rispetto ai quali si porrebbe il problema di un loro ricollocamento in un modello di società che, sul piano valoriale e della visione delle cose, sarebbe agli antipodi.
La rivoluzione khomeinista fu solo apparenza?
La rivoluzione si fondò, per certi versi, sugli stessi presupposti dell’attuale ondata di proteste: rovesciare un’autorità di potere che da tempo aveva perso il contatto con la profondità del paese: ricordiamo l’accusa di “occidentalizzazione forzata” rivolta allo Shah. Dal mio punto di vista, il fattore determinante ai fini dell’ascesa rivoluzionaria del 79’ fu il fatto che, almeno nella sua forma embrionale, la rivoluzione si faceva promotrice di un modello inclusivo di sistema-paese. A differenza dell’attuale dissenso, forgiato per lo più da una legittima “effervescenza collettiva” della componente più giovane e privo di una strategia politica, la rivoluzione islamica non era un’entità acefala, al contrario era guidata da una leadership che aveva una visione delle cose, sebbene ambigua ma l’aveva, e la stessa non si limitava ad opporsi al sistema di potere, bensì si caricava su di sé la responsabilità di un cambiamento radicale, non solo dell’assetto politico e istituzionale, ma di ogni aspetto della società: sappiamo perché lo facciamo, sappiamo come farlo. Il risultato del referendum tenutosi due mesi dopo il rientro dall’esilio di Khomeini, in cui si chiedeva agli iraniani se fossero favorevoli al mantenimento del sistema politico vigente oppure svoltare verso la Repubblica islamica – 98,2% a favore della seconda - , in larga parte smonta quella narrazione che racconta la rivoluzione islamica come un’implosione, quasi schizofrenica, di conservatorismo estremo, di matrice nazionalista-clericale, imposta nel quadro di uno schema top-down. Il khomeinismo attecchì in ogni angolo e in ogni frangia più remota della società iraniana, riflettendo e intercettando il malcontento di chi, nei tentativi di modernizzazione dello shah, si era sentito tradito. In ultimo, il fatto che durante le proteste di questi mesi si siano viste sventolare, da parte dei giovani iraniani, le bandiere risalenti al periodo dello shah, contro il quale i loro nonni e padri sono insorti, rappresenta un cortocircuito generazionale che è uno dei principali emblemi di quanto sta avvenendo.