Economia
Damiani dice addio alla Borsa. Una storia di risparmio spremuto
Il prezzo offerto per il delisting è di solo 85,5 centesimi per azione, contro i 4 euro del debutto, per un flottante calato dal 35,1% al 16,74%
Damiani si prepara a dire addio a Piazza Affari: Leading Jewels, holding controllata per il 60,82% (tramite D Holding) alla stessa famiglia Damiani ha infatti annunciato un’Opa volontaria sul titolo della società di gioielleria alessandrina a 0,855 euro per azione. L’operazione è finalizzata al delisting e giunge poco più di 11 anni dopo un debutto, nell’ottobre del 2007, che aveva visto collocati a 4 euro per azione (nella parte bassa di una forchetta indicativa di 3,8-5,2 euro) 28,99 milioni di azioni in tutto (compresa la greenshoe), di cui 18,42 milioni di nuova emissione e 10,52 milioni venduti da Giorgio Grassi Damiani, Silvia Grassi Damiani e Giulia de Luca.
Solo dalla vendita di parte delle proprie partecipazioni dirette i Damiani avevano dunque incassato oltre 42 milioni di euro, mentre ora il delisting non costerà neppure 12 milioni di euro e la cosa non ha mancato di infastidire qualche piccolo investitore, che ha mormorato: “Dovrebbero impedire alle società di delistare titoli a prezzi inferiori a quelli dell’Ipo per 50 anni”. In realtà il flop di una quotazione può essere legato a molti fattori, da una valutazione eccessiva (ma nel caso di Damiani il prezzo non apparve eccessivamente “tirato”) a una successiva crisi del settore in cui l’azienda opera, fino a problemi manageriali o a crisi legate alla gestione di una o più successioni.
Nel comunicato con cui Leading Jewels ha annunciato l’operazione, peraltro, si sottolinea la volontà di assicurare “stabilità dell’assetto azionario e la continuità manageriale necessarie a Damiani per poter cogliere eventuali future opportunità di sviluppo e crescita in Italia e all’estero, nonché un indirizzo strategico volto alla valorizzazione del business nel medio-lungo periodo”. Ma visto che l’azienda non è mai stata contendibile, con un flottante del 35,1% che con gli anni si è ulteriormente ridotto fino all’attuale 16,74% circa (poco meno di 13,9 milioni di azioni), sembra azzardato pensare che restando in borsa Damiani si sarebbe esposta a chissà quale rischio di stabilità dell’assetto azionario o manageriale.
Semmai, forse, a far propendere per un delisting sono i costi della permanenza sul segmento Star, sui cui Damiani era originariamente sbarcata ma dal quale aveva già chiesto l’esclusione nell’agosto di quattro anni fa, restando quotata sul Mta pur con una capitalizzazione (attuale) di una settantina di milioni di euro. Oltre al corrispettivo da pagare a Borsa Italiana per rimanere quotati (tra i 6.300 e i 215 mila euro ogni sei mesi in base a un tariffario parametrato alla capitalizzazione di mercato), vi sono infatti tutta una serie di obblighi che generano ulteriori costi per le società quotate.
Tra questi, l’obbligo di avere un Cda, eventualmente con la presenza di amministratori indipendenti, di avere un comitato controllo rischi, di legare la remunerazione del top management alle performance realizzate, di certificazione dei bilanci, di pubblicazione di trimestrali, di nomina di un investor relator, di predisposizione e diffusione periodicamente di informazioni finanziarie in italiano e in inglese, e di selezione di uno specialista, ossia un intermediario che provveda a garantire liquidità sul titolo e a stilare almeno 2 ricerche all’anno, oltre che a tenere regolari incontri con gli investitori.
Eppure alla fine stiamo parlando di costi che nel caso di Damiani dovrebbero esser nell’ordine di non più di qualche centinaia di migliaia di euro all’anno, così forse a pensar male si fa peccato, ma il riferimento fatto da Leading Jewels alla volontà di cogliere “eventuali future opportunità di sviluppo e crescita” potrebbe far pensare che i Damiani, che alla fine dei primi sei mesi del 2018 hanno visto il fatturato frenare ancora (66,9 milioni, -4,3% rispetto al primo semestre 2017), il margine operativo restare in rosso (sia pure più lieve: 1,43 milioni di perdita contro gli 1,69 milioni di un anno prima) e la perdita netta risalire a 5,9 milioni (dai 4,9 milioni di 12 mesi prima) stiano già valutando qualche alleanza che potrebbe anche comportare il passaggio del controllo del gruppo alessandrino.
O che a spingere per un eventuale “matrimonio riparatore” siano le banche creditrici del gruppo, visto che a fine settembre l’indebitamento netto era salito ad oltre 59 milioni di euro (dai 57,3 milioni di fine 2017), il che in una fase come l’attuale in cui il settore creditizio nazionale è già da mesi tornato a “stringere” il credito può essere sembrato un campanello d’allarme cui porre rimedio prima che le difficoltà aumentino, come potrebbe capitare se l’economia mondiale tornasse a rallentare e con essa la domanda di beni di gioielli e beni di lusso.
Sia come sia, a qualcuno in borsa il prezzo offerto deve essere sembrato davvero troppo basso, visto che il titolo a fine giornata ha chiuso a 86 centesimi, dopo aver anche toccato un picco di 89,2 centesimi, salendo dunque oltre il corrispettivo offerto. Chissà se basterà ad indurre i Damiani, e le loro banche, a mostrarsi leggermente più generose con un arrotondamento verso l’alto del prezzo offerto?
Luca Spoldi