Economia

Elezioni francesi, che cosa cambia sui mercati. Tutti i report

Elezioni francesi, i report di Goldman Sachs, Carignac e Schroders

Elezioni francesi: per Schroders il primato di Macron incoraggia gli investitori

Secondo l'analisi a cura di Azad Zangana, Senior European Economist & Strategist di Schroders, il popolo francese ha mandato un chiaro messaggio all’establishment: è stanco della mancanza di scelta e di progressi sul fronte dell’offerta politica. Il Partito Repubblicano, che solo pochi mesi fa sembrava essere l’unica scelta per la Francia dopo gli scarsi risultati nei sondaggi da parte di François Hollande, è stato relegato al terzo posto con solo il 19,9% dei voti. I socialisti sono finiti addirittura quinti, con il 6,3% delle preferenze, risultato che potenzialmente segna la fine del partito.
L’ex ministro dell’Economia, Emmanuel Macron, ha ottenuto il maggior numero di voti, con il 23,9%, seguito dal candidato di estrema destra, Marine Le Pen (21,4%), diventando così il favorito per il ballottaggio, che si terrà il 7 maggio. Anche nel caso in cui Macron fosse arrivato secondo alle spalle di Le Pen, ci si aspettava che egli costituisse la seconda scelta della maggior parte dei votanti. In effetti, i sondaggi lo danno vincente contro Le Pen, con uno scarto di 30 punti, in uno scontro testa-a-testa.

Cosa significano i risultati del voto francese per i mercati?
Per gli investitori, i risultati costituiscono una buona notizia, come dimostra il rialzo del 2% fatto segnare dall’euro contro il dollaro da settimana scorsa. Macron, su posizioni centriste ed europeiste, non solo aiuterà a stabilizzare l’Unione Europea, ma anche a costruire meccanismi di sostegno più solidi. Rispetto a Le Pen, che vuole portare la Francia fuori dall’euro, Macron è di gran lunga il candidato preferito. Ora, la campagna elettorale metterà a confronto i due candidati: ci aspettiamo che il dibattito non si sviluppi lungo la consueta linea di demarcazione destra/sinistra, ma piuttosto su un confronto tra un’idea di Francia che guarda fuori da suoi confini e una di un Paese concentrato sul proprio territorio.
Le Pen sosterrà che la globalizzazione ha fallito e che la Francia dovrebbe cercare di utilizzare politiche protezionistiche per contrastare i danni subiti dai lavoratori francesi. Macron, invece, sottolineerà come la globalizzazione e l’Unione Europea hanno portato benefici al Paese, a livello economico e di sicurezza, e che adottare misure anti-competitività non è la risposta giusta. Il candidato europeista sosterrà poi la necessità di riforme mirate per aiutare chi è rimasto indietro.
La sfida non è certamente finita, ma gli investitori probabilmente si sono tranquillizzati e iniziano a pensare alle valutazioni più attraenti dell’azionario europeo, un mercato che ha faticato a tenere il passo delle opportunità globali offerte dal contesto di reflazione, proprio a causa dell’incertezza politica.

Elezioni francesi: per Goldman Sachs una vittoria di Macron favorisce le banche Ue

Gli analisti di Goldman Sachs, in un doppio report (European Views - French election e Europe: Financial Services - Equity Research) pubblicato oggi, puntano i riflettori sulle banche. Secondo gli esperti il risultato elettorale francese favorisce gli istituti di credito di Francia, Germania e Italia. "Un ciclo elettorale favorevole potrebbe rimuovere l'incertezza, comportando spread più limitati e migliori possibilità di finanziament, scrivono. Goldman Sachs punta l'indice su Bnp Paribas, Unicredit, Caixa e Kbc, banche europee per le quali esprime una raccomandazione di acquisto.

Elezioni francesi: per Carmignac gli investitori di lungo periodo devono diffidare del populismo

Dopo la vittoria della Brexit, sancita dal referendum britannico dello scorso 24 giugno, il mercato azionario inglese si è apprezzato del 20%. Da quando Donald Trump è stato eletto Presidente degli Stati Uniti, l’indice azionario statunitense S&P 500 è cresciuto del 9%. Dovremmo dedurne che, fatte salve le obiezioni di natura sociale, addirittura morale, che si potrebbero sollevare nei confronti di programmi politici populisti, l’interesse finanziario degli investitori di per sé indurrebbe a rallegrarsi delle vittorie elettorali populiste? Non ne siamo convinti. Crediamo che la performance del mercato azionario britannico e di quello statunitense, fino ad oggi invidiabile, non sia di fatto riconducibile ai meriti economici delle opzioni scelte, bensì all’influenza positiva di un ciclo economico globale in fase di ripresa (da un anno l’indice azionario dei paesi emergenti è in rialzo del 16%, l’indice Euro Stoxx in rialzo del 18%, l’indice Nikkei del 17%). Rispecchia inoltre una vittoria delle aspettative immediate innescate dalle promesse elettorali nei confronti di un’analisi a medio termine sulle ripercussioni delle politiche implementate. Come in Europa e poi in America Latina il secolo scorso, il populismo si appella direttamente “al popolo”, riunendo un leader carismatico e i suoi sostenitori in un “noi” a carattere esclusivo, che si contrappone a tutti gli altri (“loro”), gli avversari, a turno media, istituzioni, immigrati, Cina, Bruxelles, magistrati, opposizioni, istituti di credito, ricchi, stranieri, ecc... Il Tweet pieno di rabbia indirizzato ai suoi seguaci è ovviamente diventato il mezzo di comunicazione moderno adatto a un leader populista. Il referendum è inevitabilmente l’espressione democratica da preferire. Il tema portante del “noi” contro “gli altri” conferisce al populismo la sua energia combattiva. Mette in luce in modo efficace la “regola della minoranza”, secondo la quale, grazie alla propria determinazione, un gruppo minoritario può dimostrarsi in grado di scuotere molto profondamente maggioranze storicamente in posizione dominante, ma demotivate. Se i leader politici “tradizionali” sono attualmente sotto pressione, è innanzitutto a causa della loro incapacità di fornire soluzioni efficaci a un effettivo malcontento popolare, accompagnato da un forte senso di ingiustizia. Il populismo si alimenta quindi di una realtà economica che sarebbe un suicidio ignorare. A questa situazione offre però soluzioni sbagliate, presentando il nazionalismo economico come un rimedio efficace in un mondo caratterizzato da interdipendenza, privilegiando la difesa alla libertà, il conser vatorismo rispetto all’innovazione, e voltando le spalle ai fondamenti del successo di lungo periodo, ovvero la cooperazione, la diversità e il rifiuto delle influenze delle lobby. Dopo il 2016, quest’anno sarà nuovamente teatro di consultazioni elettorali determinanti in Europa. Le scelte politiche avranno ricadute sugli investitori.

« Brexit means Brexit »

Fare chiarezza sull’origine della “Brexit” non significa offendere l’espressione democratica del popolo britannico: la decisione popolare è stata alimentata da argomentazioni politiche, che determineranno un onere economico significativo per la Gran Bretagna. Nonostante ci si debba augurare che i mediatori europei non approfittino di un rapporto di forza improvvisamente molto favorevole per attuare ritorsioni eccessive contro la decisione britannica, i negoziati ufficiali per l’uscita dall’Unione, avviata lo scorso marzo, saranno molto estenuanti per il Regno Unito. Al conto presentato dalla Commissione Europea al governo britannico prima dell’avvio di qualsiasi negoziato di circa 60 miliardi di euro, si aggiungerà il cammino verso un inevitabile deterioramento nella relazione con il suo principale partner commerciale, sacrificio accettato in nome della promessa politica di un ripristino della sovranità (« Take Back Control »). Come non accorgersi che qualsiasi accordo commerciale si basa sull’accettazione di vincoli reciproci, e che la Gran Bretagna dovrà sostituire un accesso preferenziale al mercato unico europeo, regolato da un quadro normativo condiviso, con una moltitudine di accordi altrettanto vincolanti da negoziarsi individualmente. La flessione del 16% della sterlina inglese, registrata da giugno 2016, fornisce un’indicazione sul pericolo di distruzione della ricchezza che la Brexit rappresenta per la Gran Bretagna sul lungo periodo. Il rendimento conseguito dall’investitore britannico sul suo mercato azionario da nove mesi a questa parte, si è già ridotto in misura pari a 80% con la svalutazione della sua moneta. Questo deprezzamento costituisce anche lo spettro di un rincaro del costo della vita per il popolo britannico (il tasso d’inflazione è già aumentato dallo 0,5% a giugno 2016 al 2,3% lo scorso febbraio) e della perdita di posti di lavoro, oltre alle barriere commerciali.

Donald Trump: tweet e fine?

L’entità della ripresa della fiducia dei consumatori e delle società small cap statunitensi dopo l’elezione di Donald Trump è straordinaria. L’effetto psicologico delle promesse relative ai tagli delle imposte, all’allentamento dei vincoli normativi, ai dazi doganali e agli investimenti pubblici è molto forte, e potrebbe parzialmente autoalimentarsi. È questa la sfida che sta determinando la netta sovraperformance azionaria del settore finanziario negli Stati Uniti da sei mesi a questa parte (+24% rispetto a +9% dell’indice S&P500). Tuttavia la sfida non è stata ancora vinta. Finora, l’effettivo miglioramento economico interessa soltanto il settore industriale, soprattutto grazie alla ripresa spontanea del ciclo economico. Al momento non si registra alcun “shock di fiducia” che si concretizzi in modo significativo in un effettivo aumento dei consumi, poiché il tasso di indebitamento molto elevato a livello individuale (e in generale del settore privato) di fatto limita automaticamente le possibilità di accelerazione. Inoltre i mercati stanno iniziando a far filtrare un nuovo messaggio, che riguarda i limiti delle promesse di una campagna elettorale populista. Dall’inizio dell’anno il dollaro si sta indebolendo, e il settore tecnologico è tornato a guidare le performance settoriali dell’indice S&P500. Inoltre i mercati azionari emergenti si sono apprezzati del 12% dall’inizio dell’anno, a conferma della sfiducia verso il pericolo rappresentato dai rapporti di forza che Donald Trump vorrebbe esercitare. Il recente insuccesso di quest’ultimo nel realizzare la promessa di abolizione della legge Obama in materia di assicurazione sanitaria, nonostante una maggioranza repubblicana al Congresso, costituisce un’ulteriore sollecitazione ad aderire a una realtà più ridimensionata: sarà difficile raggiungere un accordo di maggioranza in uno scenario politico volutamente molto polarizzato. Le promesse populiste possono aiutare a conquistare il potere, ma si scontrano con una democrazia rappresentativa, portando a una forte La decisione sulla Brexit è stata alimentata da argomentazioni politiche, che determineranno un onere economico significativo per la Gran Bretagna divisione della società. Donald Trump deve ormai obbligatoriamente cogliere la sua seconda opportunità, questa volta decisiva per la sua credibilità: fare approvare l’importante riforma fiscale che ha promesso. La posta in gioco economica è addirittura superiore a quella della riforma sanitaria, e sarà almeno altrettanto difficile riuscire nell’intento. La Casa Bianca potrebbe essere tentata di integrare questa riforma nel testo del piano di rilancio degli investimenti pubblici, allo scopo di ottenere un certo sostegno da parte dei Democratici al Congresso. Tuttavia questa manovra di equilibrismo si annuncia in ogni caso pericolosa e complessa. In mancanza di tagli alla spesa per il settore sanitario, e di fronte alle critiche che già aleggiano sul famoso piano di “Border Ajustment Tax“, la tanto attesa riforma fiscale dovrà superare l’ostacolo del suo finanziamento. A questo punto risulterà ancora estremamente difficile creare un consensus sulle conseguenze di impegni eccessivi presi in fase di campagna elettorale. La performance a lungo termine del mercato azionario statunitense è profondamente legata alla qualità delle grandi imprese growth e al suo ecosistema, che da molto tempo sostiene l’innovazione. Questi due punti di forza non saranno per nulla favoriti dall’attuazione di politiche protezionistiche e dall’aumento degli squilibri nei conti pubblici. L’aumento di un profondo malcontento nelle democrazie occidentali indica che la globalizzazione economica deve obbligatoriamente essere tenuta a freno. Tuttavia nel criticare il libero scambio, il populismo commette l’errore di considerare la crescita globale e gli scambi economici tra paesi come un gioco insensato, da cui pensa di uscire vincente attraverso l’istituzione di un rapporto di forza. Gli Stati Uniti potrebbero forse pretendere di imporre temporaneamente un rapporto di forza a loro favorevole, anche se è certo che nei confronti della Cina questa pretesa potrebbe rapidamente rivelarsi presuntuosa. Tuttavia, come non accorgersi che l’isolazionismo non renderebbe più forte nessun paese europeo? La Francia, innanzitutto, necessita attualmente di partner esteri per garantirsi le esportazioni e finanziare il proprio deficit estero. Sarebbe particolarmente paradossale che la tentazione del populismo prevalesse in Europa, in un momento in cui la congiuntura economica sta finalmente diventando positiva, e proprio quando Germania e Francia raramente sono state così propense a collaborare per trovare una convergenza necessaria. Più che mai gli investitori farebbero bene a diffidare del rischio politico, per poter beneficiare delle numerose opportunità a lungo termine.