Economia

Ex Ilva, domanda ko fino al 2022. I numeri che danno ragione a Mittal

La domanda di acciaio, già penalizzata dai dazi introdotti dagli Usa nel 2018, resterà al di sotto dei livelli dello scorso anno almeno per un paio d’anni

Arcelor Mittal in quel momento era in salute: in euro il 2017 si chiuse con 68,7 miliardi di fatturato, un Ebitda (risultato operativo lordo) di 8,4 miliardi (pari a un Ebida margin del 12,24%), un Ebit (risultato operativo netto) positivo per 5,4 miliardi e un utile netto di 4,57 miliardi. Per contro lo scorso anno a fronte di un fatturato salito a 70,6 miliardi (+2,82% rispetto a due anni prima), l’Ebitda era crollato a 2,4 miliardi (Ebitda margin del 2,46%), l’Ebit era passato in rosso (-627 milioni) e il risultato d’esercizio è stato pari a una perdita netta di 2,4 miliardi circa. 

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Detto in altri termini, in due anni la redditività del capitale investito (Roi) è crollata di 11,9 punti percentuali al -1,26% mentre la redditività del capitale (Roe) è caduta di ben 17,10 punti al -5,91%. Unico segnale positivo, il rapporto debito/patrimonio netto (debt/equity), indicatore di rischio noto anche come leva finanziaria, si è leggermente ridotto da 0,25 a 0,23 grazie a un indebitamento finanziario netto di 9,345 miliardi a fronte di un patrimonio netto di 40,48 miliardi. Un risultato ottenuto tagliando senza pietà costi e investimenti e avviando disinvestimenti per  oltre 2 miliardi di euro.

A chi va attribuita la colpa di questa autentica debacle? Una data può fare da spartiacque ed essere rivelatrice: il primo giugno 2018. Quel giorno infatti entrarono in vigore i dazi fortemente voluti da Donald Trump sulle importazioni di prodotti di acciaio e alluminio, rispettivamente al 25% e al 10%. Una decisione presa per favorire l’acciaieria americana per metterla al riparo dalla concorrenza europea, russa, indiana e asiatica ma che di fatto fu la prima “bordata” sparata nella guerra commerciale tra Usa e Cina, cavallo elettorale di Trump che rischia nei prossimi mesi di tornare prepotentemente sotto i riflettori con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali di novembre.

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Prima vittima dello scontro: la britannica British Steel (5 mila dipendenti, 20 mila posti di lavoro nell’indotto, ossia quanto restava dei 310 mila lavoratori del settore degli anni Settanta del secolo scorso), posta in amministrazione straordinaria dal governo di Theresa May, poi ceduta ai cinesi Jingye Group (l’acquisizione è stata completata nel marzo scorso) che a fronte di 2 mila esuberi si sono impegnati a investire 1,35 miliardi di euro nell’arco dei prossimi 10 anni e a mantenere 3 mila dipendenti al lavoro. 

Da notare che British Steel era già passata di mano negli anni precedenti (prima agli indiani di Tata, poi nel 2016 al Greybull Capital che l’acquistò formalmente per 1 sterlina) e che anche nel caso inglese si prevede che il governo dovrà intervenire offrendo un ulteriore sostegno, sotto forma di protezione dal rischio ambientale. Che sarebbe poi il “famoso” scudo penale chiesto da Arcelor Mittal dopo essere stato inopinatamente abolito dal governo nel novembre dello scorso anno con la conversione del decreto “salva imprese”. 

(Segue...)