Economia

Ex Ilva, domanda ko fino al 2022. I numeri che danno ragione a Mittal

La domanda di acciaio, già penalizzata dai dazi introdotti dagli Usa nel 2018, resterà al di sotto dei livelli dello scorso anno almeno per un paio d’anni

La crisi di British Steel, come quella dell’ex Ilva e della stessa Arcelor Mittal, non è dovuta al caso ma a un mix diabolico che da anni perseguita l’industria dell’acciaio: gli alti costi della materia prima (minerale di ferro) e una domanda molto debole che pesa sui prezzi di vendita. Ora il governo accusa Acelor Mittal di non tener conto delle “magnifiche sorti e progressive” legate alle misure di sostegno e rilancio dell’economia europea che la Ue (e i singoli stati al suo interno) stanno varando. 

Peccato che queste misure per ora non abbiano avuto ancora alcun impatto sulla domanda e rischino di non averne ancora per molti mesi, tanto che l’associazione mondiale dei produttori (la World Steel Association) proprio a inizio mese pur segnalando come gradualmente le industrie di molti paesi stiano riaprendo dopo la serrata generale di aprile e maggio dovuta all’emergenza coronavirus,  “i settori dei macchinari meccaniche e automobilistico sono fortemente esposti a uno shock della domanda prolungato, nonché all’interruzione delle catene di approvvigionamento globali” e questo gioca contro una possibile ripresa del settore dell’acciaio.

Non solo: anche le misure di sicurezza anti-Covid19 rischiano di portare “potenzialmente a una minore produttività e ad un prolungato ciclo di produzione”, che di nuovo non gioca certo a favore di una ripresa. Morale: quest’anno la domanda di acciaio rischia di calare del 6,4% (ma nei soli paesi sviluppati si teme un crollo del 17,1%), mentre nel 2021 la domanda di acciaio dovrebbe crescere del 3,8% rispetto a fine 2020 (+7,8% per i soli paesi sviluppati), ma il risultato netto sarà una domanda inferiore ai livelli 2019 per almeno un altro biennio se non più. 

Arcelor Mittal sta certamente provando a ottenere il massimo risultato col minimo sforzo, e l’analisi di Boston Consulting Group potrà contribuire a definire meglio gli eventuali margini di trattativa, ma illudersi che si tratti solo di una tattica negoziale da parte di un gruppo leader di un mercato in salute, o che ci siano decine di altri compratori pronti a lanciarsi in un’asta al rilancio pur di mettere le mani sull’ex Ilva rischia di essere l’ennesimo abbaglio le cui conseguenze saranno pagate dai lavoratori del gruppo e probabilmente dai contribuenti italiani tutti.

Luca Spoldi