Guido Maria Brera: "Italia pronta alla svolta.Ma la politica non faccia danni"
Guido Maria Brera a tutto campo in un'intervista ad Affaritaliani.it. "La prossima crisi? Verrà da Oriente. Il caso Giappone"
La finanza, la relazione stretta con il denaro, fa bene alla creatività letteraria? Forse non tutti sanno che il primo lavoro di Thomas Stearns Eliot - il più significativo poeta del Novecento, premio Nobel per la letteratura nel 1948 - fu un impiego alla Lloyd's Bank di Londra. E proprio nel cuore pulsante di Londra, sotto la cupola di vetro della Royal Albert Hall, ha inizio il romanzo “I Diavoli” di Guido Maria Brera: due uomini giocano a tennis nel silenzio di una sala da cinquemila persone, vuota. Una storia di uomini di finanza, una storia sul potere e i suoi disinganni. Un mondo che l’autore conosce bene, molto bene, perché è un finanziere - anzi: un signor finanziere – che fa dell’introspezione e dell’autoanalisi uno strumento di costruzione dell’idea di sé e della relazione con il mondo.
Finanza fa dunque rima con creatività letteraria? In tutta onestà, parrebbe proprio di no, chè il numero di finanzieri scrittori di valore si conta sulle dita di una mano; sul rapporto bi-univoco finanza-creatività non ci sono invece dubbi: non c’è l’una senza l’altra.
Riuscirà il protagonista de “I Diavoli”, finanziere che ha raggiunto l’apice del successo, a far riprodurre in cattività il mitico tonno rosso, varietà in via di estinzione? Metafora della vita e metafora del mondo che stiamo attraversando, il romanzo di Brera è a mio avviso il suo miglior biglietto da visita: dentro ci sta tutto, l’uomo, l’imprenditore, il creativo a tutto tondo.
E non solo, perché Guido Maria Brera è un personaggio talmente eclettico da permettere di sconfinare sino al calcio, permettendomi di mescolare i temi, borsa e pallone, per rendere il piatto più digeribile e divertente, il tutto insaporito dal suo sapere.
Intervistarlo è stato un piacere prima ancora che un successo.
Il mondo sembra il paese del Bengodi, nei numeri è una sinfonia di gioia, borse sui massimi, tassi d’interesse zero e inflazione tiepida. Il merito è delle Banche Centrali che come un’orchestra suonano e tutto danza, ma se la musica improvvisamente cessa tutto va in frantumi?
“Economia reale ed economia finanziaria sembrano mondi scollegati: il primo soffre la debolezza della domanda interna, dove il problema della compressione salariale e le difficoltà della classe media sempre più stritolata, pongono un freno alla crescita; molto più snello e pimpante il pianeta finanziario, dove le prospettive, sempre che non accada nulla di catastrofico, rimangono impostate al bello, sempre più bello”.
Cosa la fa essere così ottimista sui mercati finanziari?
“Non è ottimismo, è realtà. I tassi d’interesse così bassi impongono asset allocation più aggressive, sia sulle borse e sia su quello che non è quotato. La chiamano de-equitization, cioè una raccolta che avviene sia sui canali dei mercati quotati sia sempre di più su quelli unlisted. Finchè l’orchestra delle Banche Centrali continuerà a suonare la musica dei tassi zero, è ovvio che i grandi fondi saranno costretti a investire su listed e unlisted”.
Listed e Unlisted detto in parole semplici?
"Hai ragione, scusami, traduco semplificando con un nome: Uber è un perfetto modello di unlisted. Sono aziende (oggi molte) che nascono su mercati non quotati. Oggi tutti i grandi detentori di capitali, asset allocator, fondi istituzionali e fondi sovrani tendono a dare capitali sulla parte non quotata. Ad esempio una fondazione che ha 25 billion di gestione, ha investito il 17% su un venture capital, una cifra stratosferica rispetto a 10 anni fa. La parte non quotata oggi attrae molto perché ha un potenziale di rendimento alto, è forse più rischiosa, ma la facilità di raccolta permette queste diversificazioni. Questo perché i tassi a zero impongono scelte diverse: tutta la grande massa che un tempo era investita in titoli di stato ora deve trovare una nuova collocazione, migrando ovunque alla disperata ricerca di rendimenti, dirigendosi sia sulla parte quotata, sia su quella non quotata”.
E se i tassi d’interesse salgono?
“Sicuramente tassi d’interesse che si mantengono bassi e per lungo tempo, come nel periodo che stiamo vivendo, anche con quotazioni costantemente in salita, mantengono valutazioni sulle aziende sempre attraenti. Se invece i tassi dovessero salire molto, cosa che escludo, è ovvio che le valutazioni tenderebbero ad adeguarsi al ribasso con tutte le conseguenze del caso”.
La musica che suona questa grande orchestra è quella dell’“Hotel California” la canzone degli Eagles che è colonna sonora di questa fase espansiva: puoi uscire quando vuoi da questo albergo, ma non lo farai mai. L’Hotel California è la metafora dei tassi zero, è d’accordo?
“Nel senso che nessuno va mai a vedere il bluff. A me piace questa sua metafora. Noi lo scriviamo spesso nel nostro publisher online “I Diavoli” (la finanza raccontata dalla sua scatola nera http://www.idiavoli.com/): il governo delle Banche Centrali oggi ha imposto nuove regole per il gioco e nessuno ha il coraggio di andare a vedere le carte e quindi di scoprire il bluff. Nessuno si chiede perché dobbiamo credere a questa favola dei tassi zero, è evidente che diventi un dogma e, finché nessuno lo sfiderà, andrà tutto bene. Il caso principe è quello della Banca Centrale Giapponese che ha praticamente dichiarato al mercato che continuerà a stampare denaro per comprare il debito giapponese, assicurando sempre un sostegno. Può esistere un mondo dove gli investimenti sono senza rischio? La favola dura fino a quando qualcuno sfiderà la banca centrale giapponese ma mi pare che ad ora nessuno abbia intenzione di farlo, le Banche Centrali hanno un potere di persuasione verso il mercato ancora molto forte”.
Molto bella l’espressione “nessuno va a vedere il bluff”, cosa che sta succedendo anche in Europa, dove Draghi sta arrivando a fine mandato con i tassi a zero. Avrà il coraggio di fare un primo rialzo? Mi viene in mente Falcao, ottavo re di Roma, pima idolatrato, e poi dopo la finale persa con il Liverpool fu ricordato solo per quel rigore non calciato. Non vorrei accadesse anche a Draghi.
“Mi piace il paragone con Falcao. Secondo me Draghi è Falcao, perché ha tenuto in piedi una squadra scollata che è quella degli Stati dell’Euro. Per ora Draghi i rigori li ha tirati tutti e li ha tirati anche forti, come Di Bartolomei che diceva “i rigori bisogna tirarli forti”. Draghi è stato sia Falcao che Di Bartolomei. Ora bisognerà vedere cosa succede dopo Draghi, anche se devo precisare che la Bce è stata molto più morigerata rispetto alla BoJ che invece ha di fatto monetizzato il debito”.
Non è che Draghi farà la stessa fine di Greenspan, prima eroe e poi colpevole per aver scatenato una crisi?
“L’esuberanza irrazionale di Greenspan era diversa. La crisi finanziaria nata negli Usa fu scatenata anche dal “Glass Steagal Act” che cambiò totalmente una filosofia, portando le banche a diventare un welfare state, pensando al benessere dei cittadini erogando il credito e poi facendo esplodere la leva finanziaria, sia in capo alle banche che ai privati. In Europa è diverso, siamo un continente di risparmiatori, siamo più prudenti, più orientati a investimenti a reddito fisso, che paradossalmente con i tassi bassi hanno portato minori rendimenti. Vedo la politica monetaria europea più illuminata sia di quella precedente alla crisi 2008 Usa, sia di quella attuale giapponese”.
Ma se i tassi non risalgono, alla prossima crisi cosa si utilizza per stimolare la crescita? Le leve valutarie? I dazi? Mi verrebbe addirittura il pensiero di una guerra.
“Mi hanno preso in giro per un articolo scritto in passato dove dicevo che “le politiche monetarie sono finite”. Succederà che arriveremo a una guerra, ma commerciale, è inevitabile. Non è per niente folle pensare a una situazione dazi, in fondo la Cina li ha sempre avuti, perché non dovremmo metterli anche noi? Nel momento in cui tu consenti una delocalizzazione selvaggia in luoghi a bassissima manodopera, consentendo anche una delocalizzazione fiscale per pagare meno tasse, hai creato delle asimmetrie che io chiamo arbitraggio sul costo del lavoro e arbitraggio fiscale, ora queste asimmetrie o le chiudi (meglio tardi che mai) e fai regole uguali per tutti oppure qualche paese inizierà a dire che non ce la fa più e sarà costretto a imporre dazi. Perché scandalizzarsi, sono risposte naturali a una globalizzazione selvaggia, o deregulation chiamatela come volete. Hai concesso privilegi a particolari aziende e stati, ora sono inevitabili le ritorsioni di quelli che le liberalizzazioni inique le hanno subite. Se vi scandalizzate ora, dovevate scandalizzarvi anche prima”.
Dunque ben vengano i dazi e le guerre commerciali?
“No, io non sono favorevole né ai dazi e né alle guerre commerciali, ci perdono tutti, però ripeto, dovevate scandalizzarvi prima per le libertà commerciali concesse a certe aziende e rese anche in maniera un pò mascherata all’opinione pubblica”.
Tornando ai mercati, un altro celebre Brera diceva che lo 0 a 0 era il risultato perfetto di una partita, secondo i mercati il numero perfetto è il 3, la percentuale di equilibrio tra Bond e Azioni. Secondo Lei è veramente un numero discriminante?
“Dipende dal ciclo economico. Quando ero giovane si diceva sempre quest’azione è molto interessante perché rende quanto un bond. Oggi ci sono azioni che rendono molto più dei bond anche in prospettiva di tassi in salita. Io credo sia solo una soglia psicologica”.
Anche perché a sostenere l’andamento delle azioni, se non c’è il dividendo, c’è sempre il gioco del buyback.
“Il tema dei buyback è molto interessante, aziende gonfie di liquidità che hanno avuto il privilegio di tax rate molto bassi, usano questa forma di investimento molto conveniente, soprattutto quando i soldi sono in paradisi fiscali e non ancora reimpatriati. Purtroppo è anche un problema perché significa che l’azienda non trova altre forme di allocazione per la liquidità”.
Pensi che Apple nel primo trimestre 2018 ha comprato azioni proprie per 23 miliardi di dollari e ha annunciato che ne comprerà altri 100 miliardi, soldi che vengono spesi per buyback e non per investimenti, ha un futuro un’economia così?
“L’analisi è perfetta, quelle che io chiamo platform company, aziende che hanno accumulato una grande quantità di risorse, con l’uso dei buyback da un lato consentono ai mercati di restare su, ma dall'altro impoveriscono l’economia reale degli investimenti. Se tu non trovi altra forma di investimento che ricomprare le tue azioni è un problema reale”.
Ma c’è chi su Apple ci crede, non uno qualunque ma Warren Buffett che 20 anni fa al motto “non compro ciò che non conosco” non toccava nemmeno le società tech, oggi si è convertito e Apple la compra anche sui massimi.
“Buffett dice che le valutazioni non sono in bolla, però è lo stesso Buffett che non capisce le criptovalute come 20 anni fa non capiva le aziende tecnologiche. Anche Buffett sbaglia, ma lo capisco, perché le metriche tradizionali non funzionano quando valuti aziende disrupting, sono business nuovi, potenzialmente enormi che si valutano come delle opzioni call sul futuro, hanno quindi una valutazione molto soggettiva, per questo capisco che uno come Buffett abbia difficoltà a comprare “business visionari” piuttosto che “business razionali”. Oggi Apple è un business molto meno visionario di prima, ma è una macchina da guerra che produce utili in grandi quantità e ha un buyback costante, quindi oggi Buffett la capisce”.
Mentre delle criptovalute Buffett dice che faranno una brutta fine.
“Appunto perché sono ancora un “business visionario”, la call sul futuro, possono valere molto in futuro o quasi nulla, e quindi Buffett non le capisce. Ma io non scommetterei sulla sua infallibilità, perché prima o poi tutti sbagliamo, magari sbaglia anche lui”.
Rimanendo sulle aziende Usa, su alcune high tech company ha dimostrato un po’ di scetticismo..
Il fenomeno si chiama “uberization”. Aziende che si possono permettere di lavorare per un periodo sotto costo, finché smantellano la concorrenza e poi decidono i prezzi e vedono l’utile”.
Tra le società che bruciano cassa per eliminare la concorrenza mi viene in mente Tesla, che tra l’altro è guidata da un peperino, l’ultima volta ha mandato a quel paese gli analisti. Mancava solo che dicesse “ma io non sono pirla”, ricorda quello del triplete? Non pensa che quelli come Musk stiano diventando un po’ troppo arroganti credendosi i dominatori dell’Universo?
“Il successo spesso attira arroganza e troppa sicurezza, e magari poi si sbaglia”.
Tesla ha un futuro?
“Io sono molto attento all’ambiente, la Tesla si poteva fare 5, 10, 20, 30, 40 anni fa, si è deciso di farla ora perché anche Tesla è un business disrupting, che ha fatto da apripista a molti altri. Tutto sommato dobbiamo a Tesla e Musk questa nuova visione dell’auto elettrica, che magari un giorno avranno tutti portando le valutazioni di Tesla su livelli molto più bassi, ma ha avuto il merito di essere pioniere”.
Un’altra auto è Ferrari, che oggi sta raggiungendo cifre folli. Sempre collegandomi al calcio Neymar potrebbe essere la Ferrari? Nel senso, grande giocatore ma con valutazioni al limite dell’assurdo. Ferrari non rischia di essere la prossima bolla?
“I titoli come Ferrari io li chiamo “trophy asset”, sono trofei come lo sono i calciatori. Per esempio la Roma non doveva vendere Salah. Ricorda a quanto lo hanno venduto? Guardi quanto lo valutano oggi”.
Ma Ferrari vale veramente così tanto? Se qualcuno si pone la domanda è il momento che iniziano le vendite.
“Io la vedo diversamente. Sono stati stampati talmente tanti soldi da produrre due corsi monetari: uno per gli investitori normali e l’altro per i billioners. Questo porta a creare asset come quadri, orologi e macchine che diventano un’esclusività per i billioners e hanno valori al di fuori del prezzo di mercato: sono di massimo prestigio e si trasformano in asset trofeo. Quindi se Neymar vale 450 milioni e Salah 250, allora Ferrari ha un potenziale di prezzo futuro immenso, potendo reggere rivalutazioni anche molto più importanti”.
Da Ferrari a Piazza Affari. Il nostro indice è sul livello storico dei 24.500, resistenza che ci ingabbia da ormai 9 anni e che una volta sfondata potrebbe produrre un bel rialzo. Più facile che la Roma vinca il prossimo scudetto o che Milano riveda i 50.000?
“Prima o poi a 50.000 ci arriverà e nel frattempo speriamo che la Roma vinca lo scudetto, anche se continuando a vendere i migliori giocatori la vedo difficile. In borsa si dice taglia le perdite e fai correre i profitti, la Roma ha fatto il contrario”.
Quindi più probabile rivedere i 50.000?
“Sì è più probabile”.
E le banche italiane? Sembrano vivere una crisi più lunga di quelle vissute dall’Inter, siamo alla svolta?
“Sì ci siamo, ma se il Pil italiano non cresce in maniera stabile difficilmente faranno bene. Anche se credo, fortissimamente credo, che il punto di svolta sia vicino, sempre che la politica non faccia danni, e con un’economia in crescita, le banche potranno recuperare il valore di libro e andare oltre, anche perché questo è un settore che tradizionalmente è valutato sopra il valore di libro”.
Se la politica non fa danni, quindi è meglio che non ci sia un governo?
“Intendo dire che i mercati non amano gli shock. In Italia abbiamo subito prima la crisi finanziaria, in modo minore rispetto al mondo, e poi quella industriale, quest’ultima molto pesante. Ora siamo in ripresa, ma gli investitori, soprattutto esteri, chiedono certezze nelle regole e nei piani di sviluppo. Qualunque sia il governo eletto degli elettori, quello che conta è che abbia un piano di lungo termine e non i soliti propositi “una tantum” e con i soliti compromessi”.
Abbiamo fatto i Pir per le Pmi e le società immobiliari, se li avessimo fatti anche per gli Npl sarebbe stato stupido?
“No, sarebbe stata una cosa intelligentissima. Sugli Npl avrebbero dovuto guadagnarci tutti gli italiani e non solo una serie di fondi selezionati con un business che a me fa orrore perché tocca un pezzo di finanza “biopolitica” cioè che entra nella vita delle persone. Il business degli Npl sarebbe dovuto essere più democratico”.
L’Estate è vicina, facciamo un po’ di “calciomercato” in borsa? Unicredit resta in Italia o va ai francesi?
“Non è già finita ai francesi?”
E su Telecom, ora che hanno vinto gli americani, il titolo raddoppierà?
“Se avessero vinto gli americani non sarei contento. In realtà ha vinto un progetto tendenzialmente italiano, gli americani hanno una quota di minoranza e non decideranno certo loro. Ora finalmente c’è un piano industriale, quando prima c’era solo un conflitto. Se poi tutto questo è avvenuto grazie all’entrata del fondo Usa, ok, ma ha vinto un piano industriale, un piano condiviso con il governo. Non si può pensare di controllare un’azienda come Telecom, strategicamente importante, senza avere un piano condiviso con il governo, di qualsiasi nazionalità siano gli azionisti, devono avere un piano approvato dalla politica”.
Cdp è entrata in Telecom, e subito c’è stata l’insurrezione per il pericolo del ritorno alle partecipazioni statali.
“Doveva farlo prima, ha dormito per 5 anni, finalmente l’ha fatto.
Telecom Mediaset, matrimonio possibile o utopia?
“Può essere, ci vedo molte sinergie”.
Su Generali c’è gran fermento tra gli azionisti italiani, stanno preparando la difesa all’assalto a Fort Knox?
“Mi auguro veramente e fortissimamente che Generali rimanga in Italia”.
MpS?
“Ormai è pulita, ora c’è la possibilità di rivedere i valori di libro”.
Dunque se Unicredit finirà ai francesi…
“É finita”.
Quindi con Unicredit francese, e altre aziende che rischiano di essere comprate dagli stranieri, la borsa italiana sarà come la Serie A, un campionato colonizzato da giocatori non italiani che poi non è garanzia di miglior qualità.
“È la partita dei prossimi anni, decidere se resistere all’invasione o vendersi a progetti che estraggono solo valore e non ne creano. Non conta di che nazionalità siano, conta la qualità dei progetti, se è estrattiva o se creativa di valore. Ovviamente spero nella seconda, perché il risparmio degli italiani, l’asset più importante che abbiamo, deve essere gestito al meglio, utilizzandolo per la crescita del nostro paese e non dirottato in altre mete a beneficio di altri”.
Le chiedo un consiglio: questo, secondo lei, è il tempo opportuno per fare cosa?
“C’è sempre un tempo opportuno per studiare. Siamo in un contesto molto particolare, se lo vedessimo da Marte, sarebbe importante studiare le politiche delle banche centrali, gli effetti della globalizzazione, del riscaldamento globale, dello smantellamento totale della classe media. Bisogna studiare un futuro che è prigioniero di uno strabismo divergente, dove da un lato c’è un controllo totale e dall’altro un cigno nero sempre alle porte. Io lo faccio tutti i giorni, leggere, studiare, informarsi costantemente per poi avere la competenza per raccontare le cose”.
Lei ha detto di essere direttore d’orchestra di un gruppo di gestione, che musica sta suonando o vorrebbe suonare?
“L’inno italiano. Vorrei suonarlo per incitare il nostro paese, perché questo è il momento in cui la nostra economia può riuscire a chiudere il gap di produttività e crescita che abbiamo avuto con gli altri paesi. In termini ciclistici, dopo aver arrancato, possiamo rientrare nel gruppo di testa”.
Ha parlato di cigno nero, nel calcio potrebbe essere associato al goal di Magath nella finale di Coppa Campioni del 1983, un goal che stese una Juventus strafavorita. Chi potrebbe essere il Magath di oggi per le Borse?
“Il Giappone, o meglio la politica monetaria del Giappone, francamente ormai è al limite dell’illusionismo. Se uno va a vedere il bluff, fa paura”.
Il Bluff, il grande bluff, più volte gli scontri sui mercati sono stati interpretati come grandi partite a poker. Ma Guido Maria Brera ha anche un'altra interpretazione, quella del mercato finanziario come un grande prestigiatore, una mano che rotea incantando la platea, l'altra, quella che pochi vedono, agisce. Ecco, Guido Maria è uno di quei pochi che guarda l'altra mano, la studia, la comprende e poi guadagna.