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Economia
La pensione integrativa è inevitabile: guida ai costi e ai rendimenti

L’allarme è stato lanciato qualche settimana fa dalla società di ricerca e selezione del personale Manpower Group: il 12% dei “millenials” in tutto il mondo teme di non riuscire ad andare in pensione. Per essere precisi il 12% degli americani, ma anche di inglesi, italiani e olandesi attualmente tra i 20 e i 34 anni di età, prevede di dover lavorare fino a quando, letteralmente, morirà, percentuale che balza al 37% in Giappone, al 18% in Cina, al 15% in Grecia, mentre in Spagna sono così negativi solo il 3% degli intervistati, in Svizzera il 6%, in Francia e Messico l’8%, in Germania e Norvegia il 9%, in Brasile il 10% e in Australia il 10%.

Se la classifica in sé stessa potrebbe riflettere un maggiore (o minore) grado di consapevolezza del problema, quel che è certo è che la previdenza pubblica in futuro è destinata a coprire una percentuale sempre minore del reddito dei lavorati, lavoratori che, purtroppo, sono sottoposti a un rischio molto più elevato di quello corso dai loro genitori riguardo alle prospettive di carriera e di continuità dell’occupazione, cosa che contribuisce a ridurre il flusso di contributi versati.

Per questo ricorrere ad una qualche forma di previdenza integrativa appare non solo opportuno ma inevitabile, ma come stanno le cose in Italia? Secondo l’ultima relazione annuale di Covip (la Commissione di vigilanza sui fondi pensione), a fine 2015 operavano in Italia 469 fondi pensione (27 meno dell’anno precedente), di cui 36 negoziali, 50 aperti, 78 piani individuali pensionistici (Pip) e 304 preesistenti, ossia operanti anche prima della riforma previdenziale del 1993 che ha introdotto il modello contributivo al posto del retributivo (legando dunque le pensioni ai contributi versati durante tutta la vita lavorativa e non alla retribuzione raggiunta al momento del pensionamento).

A tale pletora di fondi sono nel complesso iscritti 7,2 milioni di lavoratori italiani, di cui 5,2 milioni di lavoratori dipendenti privati, 1,9 milioni di lavoratori autonomi e appena 174 mila lavoratori dipendenti del settore pubblico, con un patrimonio accumulato nelle diverse forme previdenziali integrative che ha superato i 140 miliardi di euro (l’8,6% del Pil ma solo il 3,4% della ricchezza delle famiglie italiane). Se l’offerta è ampia, i problemi non mancano: quasi 1,8 milioni di iscritti alla previdenza complementare lo scorso anno non ha effettuato versamenti contributivi, mentre i costi restano elevati, tanto che sui 10 anni un fondo pensione negoziale vede un Isc (indicatore sintetico di costo) pari allo 0,4%, un fondo pensione aperto all’1,3%, un Pip al 2,2%.

C’è sicuramente spazio per migliorare l’efficienza e ridurre i costi della previdenza integrativa oltre che del relativo sistema distributivo, visto che proprio i più onerosi Pip, spinti dalle reti di promotori, hanno raccolto la quota maggiore di nuove adesioni dall’avvio della riforma. Ciò nonostante versare i propri contributi in tali forme anziché lasciarli parcheggiati nel Tfr è certamente vantaggioso: lo scorso anno, secondo calcoli Covip, i fondi negoziali hanno reso mediamente il 2,7%, i fondi aperti il 3%, i Pip il 3,2% e le gestioni separate il 2,5%. Nello stesso periodo i Tfr, complice un’inflazione sempre più ridotta, ha reso appena l’1,2%.

Sui risultati ha certamente influito l’andamento dei mercati finanziari, tanto che proprio le linee di investimento a maggiore contenuto azionario hanno reso più di tutte, ovvero il 5% medio per i fondi negoziali, il 4,3% medio per i fondi aperti e il 4,4% per i nuovi Pip. Ma come fare a capire se e quando passare da una linea all’altra? Una possibilità potrebbe essere quella di demandare la scelta sull’opportuno timing ad un gestore professionale, come propone Zenit Sgr che in questi giorni ha lanciato il fondo flessibile Pensaci Oggi, pensato  proprio per venire incontro alle esigenze dei 18 milioni di italiani under 35enni.

Rispetto ad altri prodotti analoghi il fondo, nato dalla collaborazione di Zenit Sgr e AdviseOnly, prevede un piano di sottoscrizione libero accessibile senza vincoli di importo, frequenza e durata. Bastano 100 euro per iniziare e i versamenti successivi sono possibili a partire da 10 euro e multipli.  Al piano di investimento libero si accede solo online, tramite computer o dispositivi mobili, senza alcun costo o commissione di sottoscrizione o rimborso, senza commissioni di performance e con una commissione di gestione annuale pari solo all’1% (contro l’1,3% medio dei fondi pensione aperti, come già ricordato), identica per investitori istituzionali o privati.
Dopo tre anni, inoltre, il fondo restituirà il 30% delle commissioni (dunque un 1%) sotto forma di quote del fondo, incrementando così il patrimonio dell’investitore.

Può sembrare una cifra modesta, ma capitalizzato sull’arco di 30 anni il risparmio in termini di costo su un versamento di 100 euro all’anno risulterà pari a oltre 3.200 euro, mentre se i versamenti fossero di 100 euro al mese salirebbe a circa 65 mila euro. Capitali che se reinvestiti potrebbero ulteriormente crescere garantendo una pensione più che decorosa e l’allontanamento del rischio percepito da molti “millenials” di dover morire, letteralmente, sul posto di lavoro.

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