Economia

Petrolio ai minimi dal 1999, le major tagliano produzione, investimenti e...

di Luca Spoldi

Chevron e BP accelerano le dismissioni, Equinor ferma le trivelle Usa, Aramco mette la retromarcia

I trader che avevano creduto ai tweet di Trump sul taglio da “circa 10 milioni di barili, forse 15 milioni” si stanno ancora leccando le ferite, col petrolio Wti texano che dai 21 dollari al barile del primo aprile (un giorno prima dei tweet euforici di Trump) il petrolio è crollato ai 12,10 dollari odierni, perdendo in pochi giorni il 42% e tornando su livelli che non si vedevano dal 1999.

 

Ma più che gli investitori finanziari, a guardare con preoccupazione al progressivo e per ora inarrestabile calo delle quotazioni dell’oro nero sono soprattutto i grandi gruppi petroliferi, già sotto pressione da mesi per la richiesta di un cambiamento più netto dell’economia mondiale a favore di energie rinnovabili e meno inquinanti. Trasformarsi con quotazioni petrolifere sostenute è un processo delicato e lungo, farlo con prezzi che il crollo della domanda mondiale a causa dell’epidemia da coronavirus ha fatto tornare sui minimi degli ultimi 20 anni e più rischia di essere un percorso ancora più accidentato e pieno di default lungo la via.

 

Per non ridurre i rischi al minimo le major non hanno perso tempo, tagliando costi, rinviando nuovi investimenti e in alcuni casi cercando la protezione dei tribunali. E’ il caso di Whiting Petroleum, la maggiore compagnia petrolifera indipendente americana, attiva nello shale oil, che proprio il primo aprile aveva avviato la procedura per chiedere il Chapter 11, una procedura molto simile al concordato preventivo previsto dal codice fallimentare italiano volta al soddisfacimento dei creditori, ma contemporaneamente alla conservazione delle attività dell’impresa in crisi.

 

Senza arrivare a tanto, Chevron, un colosso da quasi 140 miliardi di dollari di fatturato (e oltre 2,9 miliardi di utile) nel 2019, ha già annunciato un taglio del 20% (pari a 4 miliardi di dollari) degli investimenti previsti per quest’anno, ed in particolare 2 miliardi in meno di investimenti per lo sviluppo del maxi giacimento del Bacino Permiano in Texas, le cui previsioni produttive sono state tagliate a loro volta del 20%. Chevron ha anche sospeso il buy-back sui propri titoli azionari, completato la cesssione delle proprie attività nel giacimento di Malampaya (nelle Filippine) e in Azerbaijan e previsto un taglio dei costi operativi di 1 miliardo di dollari quest’anno.

 

Royal Dutch Shell ha agito in modo simile ma anche più marcato. Nel caso della compagnia anlgo-olandese, gli investimenti si ridurranno di 5 miliardi di dollari a 20 miliardi o meno quest’anno, mentre i costi operativi verranno ridotti di 3-4 miliardi di dollari nei costi operativi nei prossimi 12 mesi. Anche Shell sta cercando di fare pulizia nel suo portafoglio d’investimento cedendo quelli ritenuti non strategici con l’obiettivo di raccogliere 1 miliardo di dollari entro fine anno, ma i tempi, hanno messo le mani avanti i vertici della compagnia, dipenderanno dal mercato.

 

Oltre 3 miliardi di dollari in meno di investimenti anche per Total, che dunque prevede di chiudere il 2020 come nodi 20 miliardi di dollari di investimenti (-20% circa rispetto alle previsioni). Un altro paio di miliardi di risparmi verranno dalla riduzione dei dividendi per gli azionisti e dal blocco delle assunzioni. Se però il crollo delle quotazioni dovesse durare tutto l’anno, il gruppo francese non esclude di arrivare a perdere sino a 9 miliardi di dollari, essendo il budget stato stilato sulla base di un prezzo medio di 60 dollari al barile che sembrava realistico ancora a inizio 2020 ma che potrebbe non vedersi più sul mercato prima del 2022.

 

I tagli di BP ammonteranno a 4 miliardi dollari e peseranno per il 25% (riducendo da 16 a 12 miliardi l’ammontare per quest’anno); di questi un miliardo in meno riguarderà la produzione di shale oil della controllata statunitense BPX, un settore in cui solo lo scorso anno il gruppo aveva investito 10,5 miliardi di dollari per diventare il maggiore produttore del settore. In più BP ridurrà di 2,5 miliardi i costi operativi entro la fine del 2021 e completerà un programma di cessione di asset non strategici da 15 miliardi di dollari entro la metà del prossimo anno, anche in questo caso ovviamente mercati permettendo.

 

Equinor (nuovo nome assunto dalla compagnia norvegese già nota come Statoil) ha invece ha presentato un pacchetto del valore complessivo di circa 3 miliardi di dollari per superare la crisi. Gli investimenti caleranno del 20% circa dai previsti 10-11 miliardi a 8,5 miliardi, mentre i costi operativi saranno ridotti a 700 milioni. Il gruppo sospenderà in particolare tutte le operazioni di perforazione e produzione in corso negli Stati Uniti, focalizzandosi solo sul Mare del Nord.

 

L’italiana Eni ha invece preferito congelare il previsto buy-back da 400 milioni di euro e ridurre del 25% gli investimenti (2 miliardi di euro in tutto) quest’anno, preventivando inoltre un ulteriore taglio degli investimenti del 35% l’anno prossimo (2,5-3 miliardi di euro in meno). Mosse che secondo il management del gruppo basteranno a garantire la distribuzione dei previsti 86 centesimi per azione di dividendi a valere sui risultati 2019 (di cui 43 centesimi già distribuiti come acconto lo scorso settembre). Per l’anno prossimo si vedrà.

 

Ultima ma non meno importante, la maggiore compagnia petrolifera mondiale, la saudita Aramco, dopo aver preannunciato a inizio marzo di voler aumentare a 12,3 milioni di barili al giorno la sua produzione petrolifera dal primo aprile e aver previsto un ulteriore aumento a 13 milioni di barili al giorno, è dovuta tornare precipitosamente sui suoi passi e giusto ieri ha fatto sapere che dal primo maggio prossimo non fornirà oltre 8,5 milioni di barili al giorno ai propri clienti sia domestici sia internazionali, avendo nel frattempo già riportato sugli 11 milioni al giorno la produzione corrente.

 

Mossa inevitabile e non dovuta a particolari difficoltà finanziarie (il break even per Aramco è di soli 3 dollari al barile) che l’accordo raggiunto in sede di Opec + prevede che l’Arabia Saudita (che a causa degli imponenti piani previsti dal programma Vision 2030 ha peraltro bisogno di un petrolio attorno agli 82 dollari al barile per raggiungere un breakeven finanziario, contro i 51 dollari per la Russia e tra i 48 e i 54 dollari per i principali produttori di shale oil americano) rinunci a estrarre 2,5 milioni di barili di petrolio al giorno, pari appunto alla differenza tra la produzione attuale e quella annunciata.