Economia
Quattro mld per evitare la revoca. Il governo presenta il conto ad Atlantia
In Borsa il titolo chiude a -2,7%
Autostrade per l’Italia: perché nulla cambi stavolta tutto dovrà cambiare. Dopo l’approvazione del decreto Milleproroghe alla Camera, senza modifiche all’articolo 35 (che riduce la penale da pagare ai concessionari in caso di revoca delle concessioni autostradali dai 23-25 miliardi finora preventivati a non più di 7 miliardi) e all’articolo 13, che prevede che i concessionari presentino entro marzo un nuovo piano tariffario in linea col nuovo sistema “RAB based” proposto dall’Autorità dei Trasporti, il pallino torna nelle mani dei Benetton.
A sottolinearlo è lo stesso premier Giuseppe Conte, ribadendo come il governo stia “conducendo questa procedura di revoca” e come sia “interesse della controparte, di Autostrade, eventualmente fare una proposta transattiva che il governo avrebbe addirittura il dovere di valutare”. La parola dunque ad Atlantia, ma per proporre cosa? L’idea di ridurre la percentuale di partecipazione al capitale di Autostrade per l’Italia (Aspi) facendo spazio a Cdp e al fondo strutturale F2i non sembra aver generato molto interesse e si può anche capire perché.
Una volta dentro ad Aspi, infatti, toccherebbe proprio a Cdp e F2i farsi carico, pro quota, dei futuri investimenti necessari ad adeguare la rete autostradale. Piuttosto, fanno filtrare fonti vicine al ministero dei Trasporti, per arrivare ad una “pax autostradale” i Benetton (oltre agli altri concessionari come il gruppo Gavio e il gruppo Toto) dovrebbero accettare di rivedere la concessione stessa, effettuare robusti investimenti fuori budget (ossia non legati alla revisione delle tariffe) e tagliare i pedaggi ricalcolandoli in base all’algoritmo dell’Autorità dei Trasporti (e non in base a una decisione “arbitraria” dei concessionari). Costo, per la sola Aspi-Atlantia: circa 4 miliardi di euro.
Considerato che dall’8 agosto 2018 (ultima seduta di borsa prima del crollo del ponte Morandi che provocò 43 vittime) il calo del titolo ha già provocato una riduzione della capitalizzazione di mercato di 1,8 miliardi si tratterebbe di altri 2,2 miliardi di oneri equivalenti a circa 2,2 euro per azione rispetto alla chiusura di ieri (a 20,5 euro circa, comunque ben al di sopra dei 18 euro visti tra agosto e dicembre 2018), così la borsa inizia a prendere le misure, col prezzo di Atlantia che cala di 61 centesimi a 22,08 euro per azione (-2,7% rispetto alla vigilia), in attesa di vedere come finirà.
Se per presentare la proposta c’è tempo fino al mese prossimo, per arrivare ad una soluzione definitiva si potrebbe dover attendere fino a giugno, termine ultimo entro cui i Benetton potrebbero decidere di far saltare il tavolo chiedendo la risoluzione anticipata del contratto. Una mossa rischiosa che aprirebbe una lunga guerra legale dall’esito incerto per entrambe le parti, visti i dubbi di costituzionalità della nuova norma (verso la quale tutti i concessionari hanno già presentato ricorso, in particolare per quanto riguarda l’adozione della remunerazione “Rab based”) o il possibile conflitto con le normative europee.
Per contro, accettando la sostanziale riscrittura della concessione (la cui scadenza naturale è fissata al 2038), i Benetton rinuncerebbero ad un regime, figlio di un processo di privatizzazione “predatorio” che portò alla sostanziale svendita del patrimonio pubblico a vantaggio di un piccolo nucleo di oligopolisti, che tra il 2014 e il 2018 ha consentito alla sola Aspi, a fronte circa 720 milioni di investimenti complessivi (tra quelli Aspi e quelli degli altri concessionari) e 400 milioni annui di manutenzioni (includendo anche la spesa per sicurezza), di registrare circa 900 milioni di utile all’anno, in buona misura distribuiti agli azionisti tramite il monte dividendi.
Finora a Ponzano Veneto hanno tenuto duro, forse sperando in una caduta dell’esecutivo e in un atteggiamento meno “spigoloso” da parte di un eventuale governo di centrodestra a trazione leghista. Ma la caduta del Conte-bis sembra allontanarsi ogni giorno di più, mentre i margini per eventuali rilanci sono ormai esigui per non dire nulli se non nella direzione auspicata dal governo. Che, ultimo ma non meno importante particolare, sembra intenzionato a non siglare più concessioni di così vasta portata (Aspi gestisce oltre 3 mila km di autostrade, viadotti e tunnel). L’era degli “oligarchi” italiani si avvia al tramonto, o per non cambiare nulla si dovrà accettare di cambiare tutto? Nelle prossime settimane la risposta.