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Economia

di Mariarosaria Marchesano

Il governo Renzi acquista da Intesa Sanpaolo la Sga, la vecchia bad bank del Banco di Napoli, e la mette in campo per “acquistare sul mercato crediti, partecipazioni e altre attività finanziarie”. Al momento non si sa se la Società per gestione delle attività, con sede a Napoli e 70 dipendenti, entrerà a far parte del Fondo Atlante oppure se opererà in proprio o accanto ad altri investitori o soggetti pubblici nell’ambito del piano per sostenere le banche in difficoltà. L’unica certezza è che questa società è una specie di cassaforte ambulante con la sua liquidità, pari a oltre 500 milioni di euro, accumulata come bad bank di quella che fu la più grande banca del Mezzogiorno, dopo un clamoroso crack che risale giusto a 20 anni fa. Il decreto varato dal governo la scorsa settimana e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 3 maggio, prevede che il Mef acquisti da Intesa Sanpaolo il 100% delle azioni della società sulle quali aveva un diritto di pegno in virtù proprio del decreto di ‘salvataggio’ del Banco di Napoli che fu ceduto prima alla cordata Ina-Bnl e successivamente al gruppo San Paolo Imi (quindi poi confluito in Intesa Sanpaolo). Ma cos’è di preciso la Sga, quando e come è nata e come ha fatto a recuperare quasi tutte le sofferenze del Banco, pari a 6,4 miliardi di euro, e, addirittura ad accumulare una montagna di liquidità?

Pubblichiamo alcune anticipazioni dell’e-book di prossima uscita: La bad bank dei miracoli, il caso Sga - edito da goWare

Il tracollo e la vendita del Banco di Napoli fu un terremoto per il Mezzogiorno. Un male necessario, si disse. Su quelle ceneri nacque la Sga, società per la gestione delle attività con sede a Napoli, la quale rilevò dal Banco circa 6.4 miliardi di euro crediti inesigibili o incagliati, che rappresentavano il ‘buco’, il motivo stesso del fallimento di una delle più antiche istituzioni creditizie d’Italia, con alle spalle una storia di 500 anni. Il 31 dicembre 2016 la Sga compie 20 anni e, come risulta dai bilanci, è riuscita a recuperare oltre il 90 per cento di quei crediti che, forse, tanto inesigibili non erano. In altre parole, il crack del Banco ha restituito, fino ad oggi, quasi 6 miliardi di euro. Una cifra destinata ad aumentare visto che all’appello mancano poco meno di 5 mila pratiche. Ma non basta. La Sga, come risulta dal bilancio 2014, ha anche accumulato un ‘tesoro’ di oltre 600 milioni di euro, riserve di utili che si sono formate in tutti questi anni grazie proprio all’attività di recupero e gestione dei crediti deteriorati che, dopo i primi anni in perdita, ha cominciato, a partire dal 2003, a macinare i profitti, anno dopo anno. Di tale ammontare, 430 milioni è la liquidità attualmente investita in titoli di stato ed è praticamente disponibile (….). Lo sa bene il governo di Matteo Renzi che su questa liquidità ha messo gli occhi già da tempo per sostenere il piano salva banche.

Si tratta di un epilogo quanto meno inaspettato per un crack bancario come quello del Banco di Napoli, uno dei più imponenti della storia finanziaria del Paese. Eppure, i risultati raggiunti dalla Sga sono emersi fatica e solo in parte dalle cronache finanziarie degli ultimi anni, forse per l’imbarazzo che avrebbero potuto provocare tra le stesse istituzioni. Basti pensare che la più ottimistica previsione di recupero, all’epoca del ‘salvataggio’ del Banco, non andava oltre il 50% dei ‘crediti spazzatura’.

UNO SGUARDO AL PASSATO

Il crack del Banco di Napoli è avvenuto al termine della lunga gestione di Ferdinando Ventriglia (alla fine del 1994 il Banco era la settima banca italiana con 810 sportelli e 13 controllate che operavano in tutto il mondo). Erano i tempi della fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, che per essere stato sancito dall’oggi al domani, aveva messo in crisi tantissime imprese. Erano anche i tempi del declino di una certa classe politica napoletana punita da Tangentopoli. C’era voglia di pulizia e di rinnovamento con una nuova classe dirigente ansiosa di tagliare i ponti col passato. In questo clima maturò la debacle dell’istituto che aveva come maggiore azionista una fondazione pubblica (Fondazione Banco di Napoli, allora presieduta da un nome illustre come Gustavo Minervini) che, in seguito alle ingenti perdite di bilancio del Banco (2,2 miliardi di euro tra 1994 e 1995), fu costretta a farsi da parte cedendo il passo al Tesoro che mise in atto un complesso piano di salvataggio. E il costo di questo salvataggio è stato più volte ricordato come il prezzo pagato dal sistema paese alla pessima gestione dell’istituto di credito. “Ora però i risultati raggiunti dalla Sga dovrebbero finalmente far riflettere sulla qualità dell’attivo patrimoniale del Banco e su come fu gestita l’intera la vendita privando l’economia del Sud di un punto di riferimento”, spiega l’economista Adriano Giannola, presidente della Svimez. Giannola è stato anche membro dell’ultimo consiglio d’amministrazione della Fondazione prima della cessione insieme con altri economisti e giuristi come Augusto Graziani, Federico Martorano e Vittorio De Nigris (…)

Il punto è che proprio grazie alla pulizia fatta con lo scorporo dei crediti problematici e la loro cessione alla Sga, il governo, allora presieduto da Romano Prodi, con Ciampi al Tesoro e Antonio Fazio governatore della Banca d’Italia, gettò le basi per la vendita del Banco alla cordata Ina-Bnl per 61,4 miliardi delle vecchie lire (cioè, neanche 30 milioni di euro) e dopo qualche anno al Sanpaolo Imi per 6 mila miliardi sempre delle vecchie lire (pari a 3 miliardi di euro). In mezzo alle due operazioni ci sono state delle ricapitalizzazioni, ma non tali, ne è convinto Giannola, da giustificare una moltiplicazione del prezzo di mercato dell’istituto di credito che era quotato in Borsa e fu soggetto anche a un’opa da parte del Sanpaolo Imi.

E’ noto che il pensiero meridionalista considera la cessione del Banco una ‘svendita’ o peggio uno ‘scippo’ fatto al Sud in nome di una strategia di consolidamento bancario portata avanti in quegli anni a livello nazionale. Ma pur volendo ignorare quest’approccio, c’è da dire che la totale restituzione, con una montagna di interessi (1,7 miliardi di euro), del mega debito contratto dalla Sga per acquistare le partite incagliate, ripulendo così i bilanci dell’istituto di credito, è quanto meno sorprendente (….)

DA CENERENTOLA A REGINA DELLE ‘SOFFERENZE’

Già lo scorso anno il Tesoro pensava alla Sga come veicolo, o uno dei veicoli, per dar vita a una bad bank di sistema alleggerire il carico dei crediti problematici in capo alle banche italiane, arrivato a superare i 300 miliardi tra sofferenze e incagli. Ma tale progetto ha trovato non pochi ostacoli in sede di Unione Europea e per mesi si sono studiate soluzioni per evitare che il piano incappasse nella trappola degli aiuti di stato. Ma la trattativa portata avanti con l’Ue dal ministro Pier Carlo Padoan si è poi arenata sul nodo del prezzo. E poi c’era il problema del particolare assetto proprietario della Sga, controllata da Intesa Sanpaolo ma con il pacchetto azionario in pegno al tesoro in virtù proprio del decreto di ‘salvataggio’ del 2006. Comunque, la volontà del governo Renzi su questo punto è stata molto forte e il lancio di Atlante, che non dovrebbe far ricorso a capitali pubblici per correre in aiuto al sistema bancario, ne è una prova. Si vedrà in futuro quale ruolo avrà la Sga come soggetto sostenitore delle banche in difficoltà (….)

Ma come ha fatto la Sga a trasformarsi dalla bad bank dei crediti spazzatura del vecchio Banco di Napoli in una gallina dalle uova d’oro? Erano davvero tutte sofferenze e incagli quelle della prima banca del Mezzogiorno, la settima del paese? E furono correttamente classificate? Le posizioni anomale furono accertate dalla Banca d’Italia in seguito alle ispezioni che si susseguirono tra il 1994 e il 1996 e al momento non vi è alcun elemento per dubitarne. Semmai è l’intero meccanismo che, guardato con gli occhi di oggi, presenta aspetti insoliti e, forse, poco lungimiranti (….).

Il 31 dicembre 1996 la Sga acquistò dal Banco di Napoli (grazie a un prestito garantito dalla Banca d’Italia) un portafoglio di crediti anomali per circa 6,4 miliardi di euro. Il prezzo pagato fu pari al valore a cui il Banco li aveva iscritti in bilancio dopo una svalutazione del 30% del valore nominale (9 miliardi di euro). Un totale di 36 mila posizioni: imprese, famiglie, partiti politici, enti pubblici. C’era di tutto. Ligresti, Ferlaino, Ambrosio sono solo alcuni dei nomi più famosi coinvolti dal crack del Banco. Il portafoglio, però, non era costituito solo da crediti deteriorati, figuravano anche crediti già ristrutturati, titoli di credito verso stati esteri e partecipazioni come quella nel Banco di Napoli International S.A. Attivi la cui vendita si rivelò poi proficua (…)

La Sga pagò per queste partite un prezzo alto se si rapporta al mercato di oggi. Diversamente, la Rev, la bad bank nata lo scorso dicembre per il salvataggio delle quattro banche (Etruria, Banca Marche, Cari Chieti e Cari Verona), ha acquisito 1,5 di partite incagliate ad un costo pari a circa il 17,6% circa del loro valore nominale (in origine 8,5 miliardi), cioè ben più basso e in linea con il mercato.

Ma quella che guidava l’operazione non era una logica di mercato, come si intende oggi, piuttosto si voleva facilitare la vendita del Banco con un’operazione di pulizia dei bilanci che sostanzialmente azzerava il rischio per l’acquirente e spostava il costo sullo Stato. Per raggiungere l’obiettivo fu messo in piedi un meccanismo complesso: la Sga fu finanziata dallo stesso Banco di Napoli che le erogò un prestito pari all’importo dei crediti acquisiti ma con la garanzia della Banca d’Italia a far fronte a eventuali perdite. Il tasso d’interesse applicato sul finanziamento, quello sì, fu in linea con il mercato (almeno in una prima fase: 9,4%).

Alla fine del 2002 il prestito era stato integralmente restituito con tutti gli interessi (…..) e la Sga cominciò a chiudere i bilanci in utile.

LA BOLLA IMMOBILIARE

“Il successo dell’attività di recupero crediti è in genere legata alla dinamica dei prezzi nel settore immobiliare”, spiega Michele Vitucci, commercialista milanese esperto di non performing loans con un passato di manager in Morgan Stanley, “Tra il 1996 e il 1997 l’Italia entrò nel mirino degli investitori internazionali specializzati nei non performing loans proprio perché si prevedeva che ci sarebbe stata una forte crescita del valori degli immobili nel nostro paese”. E così è stato. Complice anche il passaggio dalla lira all’euro, la bolla immobiliare è andata avanti fino al 2008 con una crescita dei prezzi esponenziale. E’ plausibile che la vendita ai valori di mercato degli asset sottostanti i crediti deteriorati del vecchio Banco sia una delle ragioni del successo della Sga, insieme alla presenza nel portafoglio anche di titoli e partecipazioni che non erano propriamente sofferenze. Vitucci conosce bene la Sga visto che nel 2002, come lui stesso racconta, ha trattato per conto di Morgan Stanley in cordata con Fortress, un altro colosso internazionale dei non performing loans, un’offerta per il portafoglio dei crediti della società partenopea (….).

TREDICI ANNI DI UTILI E I COSTI DEL CRACK

Comunque sia andata, a partire dal 2003, i bilanci della società hanno cominciato a macinare profitti con esercizi da record (per esempio, 98,1 milioni di euro nel 2008 e 113 milioni nel 2011). E dopo una lieve perdita nel 2012 (1,8 milioni di euro), ancora utili: 14 milioni di euro nel 2013, 13 milioni nel 2014 e quasi 30 milioni nel 2015. Va anche detto, però, che nei primi sei anni (1997-2002) la Sga ha totalizzato perdite per 3,7 miliardi di euro (di cui però 1,7 miliardi di interessi passivi) che furono ripianate dalla Banca d’Italia grazie ai meccanismi di ristoro previsti dal decreto Sindona (…)

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