Economia

Tassi, no panic dai banchieri centrali e la normalizzazione può attendere

Banche centrali sempre più “colombe”: tornano d’attualità la ripresa dei quantitative easing e nuovi tagli dei tassi nonostante la maturità del ciclo economico

Negli Stati Uniti il ciclo economico espansivo è in atto da quasi dieci anni, in Europa la crisi del debito sovrano greco è alle spalle da quasi altrettanto. Eppure nonostante un “bel tentativo” da manuale economico, le banche centrali occidentali sembrano aver rinunciato al ritorno ad una “nuova normalità” fatta di tassi leggermente più alti, politiche monetarie non più così generose e in mercati che tornano a camminare sulle proprie gambe, prezzando il rischio (e le opportunità di guadagno) senza la “droga” di istituti centrali pronti a fare “qualsiasi cosa sia necessaria” pur di tornare a vedere un poco di inflazione e crescita.

draghi powell
 

Anzi: l’idea di ri-normalizzare la politica monetaria, di fatto tornare a irrigidirla leggermente, con qualche distinguo (nel 2008 i tassi sui Fed Funds erano al 2% e quelli della Bce erano al 4,25%, ora siamo al 2,25%-2,50% per la banca americana, a 0%-0,25% per la Bce che sui depositi presso di sé applica un -0,4%), è ormai archiviata pur essendo stata presentata nell’agosto 2016 a Jackson Hole, per essere poi annunciata anche dalla Bce l’anno successivo e, più sfumatamente, dalla Bank of Japan

Semmai si torna a parlare di possibili tagli dei tassi in America, di tagli dei tassi in Europa dove però essendo minore lo spazio a disposizione in tal senso per evitare un eccessivo rafforzamento dell’euro e i suoi effetti deprimenti sulle esportazioni potrebbe tornare d’attualità il quantitative easing (una misura, quest’ultima, che la Germania per puntiglio e nonostante nuova frenata del settore manifatturiero volle archiviare alla fine del 2018). E poi di tassi sempre a zero e di quantitative easing perenne in Giappone e di nuove misure di sostegno alla crescita da parte della Banca del popolo cinese.

Kuroda
 

Così James Grant, fondatore ed editore del Grant’s Interest Rate Observer, ha gioco facile a dire che sarà difficile per Donald Trump trovare una scusa legale per licenziare Jerome Powell, mentre sarà facile per Powell “licenziare” Trump, semplicemente attendendo pazientemente il momento in cui tagliare i tassi, quando la crescita Usa avrà ulteriormente rallentato il passo, di inflazione non se ne sarà vista l’ombra e “the Donald” potrebbe aver perso la corsa per restare altri 4 anni alla Casa Bianca.

Forse non andrà così, ma il ruolo sempre più “politico” delle banche centrali è evidente, anche se è altrettanto evidente che la politica monetaria può molto ma non può tutto. Non può, in particolare, obbligare le banche a prestare davvero denaro all’economia reale se la fiducia nelle prospettive economiche resta modesta, come dinostra l’esigua ripresa economica europea (e il perdutante malessere dell’economia italiana) dopo anni di tassi sotto zero. Servirebbe infatti la leva della politica finanziaria, il che però richiederebbe preventivamente la rottura definitiva del dogma dell’austerità tanto caro alla Germania.

carney bloomberg
 

In compenso la prospettiva di politiche monetarie ancora espansive nonostante lo stato avanzato del ciclo economico e pronte ad esserlo ancora di più se necessario (oltre a Fed, Bce, BoJ e Banca del popolo cinese persino la Bank of England potrebbe congelare ulteriormente ogni rialzo dei tassi o finanche tornare a valutare un loro calo se la Brexit dovesse far deragliare la crescita britannica) potrà prolungare “l’effetto nirvana” di cui beneficiano da tempo gli asset finanziari (titoli di stato, obbligazioni e persino azioni, specie quelle di settori ed emittenti “interest rate sensitive”).

Bce
 

Col rischio che alla fine i mercati salgano perché non possono scendere, che le valutazioni si gonfino perché debbono continuare a stare su. Finchè la bolla pompata dalle banche centrali non esploderà. L’alternativa è del resto congelare il proprio capitale in “ultrasicuri” Bund tedeschi, con la prospettiva di perdere nei prossimi 10 anni in termini reali quasi un quarto del capitale investito (-23% con un’inflazione tedesca del 2% all’anno e un rendimento annuo di -0,30%). 

Luca Spoldi