Tim, dai fasti del passato allo spezzatino. Le nuove sfide di Gubitosi
Telecom, riuscirà il nuovo Ceo Luigi Gubitosi a far ripartire la compagnia riportandola ai vecchi fasti? Saprà resistere alle pressioni di incasso dei soci?
“Sembra di vedere l’Impero Romano”. Umberto de Julio (amministratore delegato Telecom 1998/99) ricorda di aver sentito questa frase pronunciata da un professore universitario durante una conferenza della compagnia, mentre ammirava su una cartina geografica tutta l’estensione internazionale di Telecom Italia. E’ difficile da credere, ma c’è stato un tempo, molti anni fa, in cui Telecom era un gigante nel mondo, attraverso Stet International era arrivata ovunque, dall’Europa (Spagna, Francia, Paesi Bassi, Austria e Grecia), all’America del Sud (Messico, Argentina, Brasile), fino all’Asia. Un gigante anche in termini di innovazione tecnologica, un precursore anche perché guidata da manager di alto livello come Vito Gamberale, capace di creare prodotti all’avanguardia e che soprattutto portavano enormi profitti.
Ancor più difficile da credere è che Telecom negli anni ’90 avrebbe potuto comprare aziende come Vodafone e l’americana Air Touch, entrambi i dossier erano sul tavolo di Gamberale, ma inspiegabilmente furono accantonati. Sono le sliding doors, le porte scorrevoli, una direzione porta all’espansione, l’altra alla rovina, nonostante tutti i cartelli indicassero la prima scelta, noi scelleratamente e con grande miopia, abbiamo scelto la seconda.
Telecom Italia nasce nel 1994 dalla fusione di Sip, Italcable, Iritel e Telespazio, una nuova società posseduta in maggioranza da Stet (55%) e da altri investitori italiani e stranieri e partecipata anche da Iri e Rai. Cresce e si sviluppa rapidamente, raggiungendo dimensioni paragonabili a quelle dell’Impero Romano, ma come tutti gli imperi, anche quello Telecom finì rovinosamente nelle macerie, sacrificata sull’altare per la patria e per l’Euro, fu assalita dai barbari senza opporre difesa, caricata di debiti, depredata dei tesori si è ritrovata presto in miseria.
Ogni volta che parlo di Telecom, un mio caro amico che lavora ai piani alti di un’importante banca italo/francese, perde il suo aplomb e la sua mitezza diventando una furia, ci sono momenti storici, dice lui, che segnano il cambiamento dei destini di un paese. Secondo il mio amico l’assalto della “razza Padana” a Telecom fu uno di quei momenti. In effetti il 1999, l’anno in cui Roberto Colaninno ed Emilio Gnutti, lanciano l’Opa su Telecom usando una scatola vuota come Tecnost, è uno spartiacque che segna il passaggio dall’innovazione industriale e di business, all’ingegneria finanziaria, tradotto fare soldi, un metodo non più esclusivo di banche, ma ora utilizzato anche dal mondo delle telecomunicazioni. Un passaggio che pochi notano perché inebriati dall’euforia di borsa a cavallo del 2000, un passaggio che risulterà essere un primo e rovinoso scivolone, le colonne dell’impero iniziano a scricchiolare.
Perché se fino a qualche anno prima dai laboratori di Telecom uscivano idee che portavano enormi profitti, ora escono solo soldi, che finiscono in tasche amiche, e che esaurendosi creano il macigno del debito. Sembrano lontanissimi gli anni Novanta in cui il gruppo guidato da Vito Gamberale inventa la carta prepagata dai telefonini che sbaraglia il mercato (in verità l’unico concorrente in quel periodo era Omnitel) cambiando totalmente la mentalità del consumatore nell’utilizzo del telefonino, un’idea che Gamberale rivela di averla importata dalla Colombia, dove la carta prepagata era utilizzata per telefonare, un servizio ideato per evitare le frodi telefoniche. O quando Ernesto Pascale nel 1996 annuncia il progetto “Socrate”, ovvero il primo progetto di cablaggio del Paese: un collegamento in fibra ottica per portare internet agli italiani.
Un progetto che ha un’origine ancor più lontana, perché è proprio nei laboratori della Telecom (che non avevano nulla da invidiare ai Bell Labs americani) che negli anni settanta avviene il primo collegamento di fibra ottica nel mondo. E sembrano ancor più lontani i tempi in cui Leonardo Chiariglione, un ricercatore di Telecom Italia, che ancor prima di Steve Jobs inventò l’MP3, una tecnica che oggi ha larghissima diffusione nel campo musicale. Dal 1999 si decide che l’industria e l’ingegneria devono essere ibernate, lasciando spazio esclusivamente alla creatività della leva finanziaria.
L’arrivo di Colaninno e soci, un gruppo che successivamente molti identificheranno come barbari, o “razza padrona”, segnerà il passaggio di un’epoca all’altra, da quella della semina a quella del raccolto, o peggio, razzia. Probabile, ma c’è da dire però che l’Opa utilizzando la scatola vuota Tecnost con successiva fusione tra Olivetti e Telecom Italia, fu uno di quei rari momenti in cui anche i piccoli azionisti, e non solo i grandi speculatori, riuscirono a godere di euforia e guadagni. Un’Opa a cash, con soldi contanti e con anche l’ebrezza del rilancio, una scena da film, immagini che si vedono solo a Wall Street, un’euforia però pagata a caro prezzo. Fu quella la prima tappa della via crucis del debito, da quel momento in poi un susseguirsi di cambi di padrone, di piani industriali senza mai una soluzione vincente.
Dal “nocciolino” degli Agnelli (una privatizzazione gestita in modo dubbio), a Colaninno, passando per Tronchetti Provera, fino ad Alierta di Telefonica, in mezzo tanti pettegolezzi, molti pretendenti, anche dagli Usa e dal Messico, ma nessuna offerta concreta, ma soprattutto nessun piano di rilancio per rivedere i vecchi fasti. Telecom sedotta e abbandonata senza mai trovare un marito affidabile.
Oggi, a contendersela sono addirittura in due: un Napoleone sul viale del tramonto (Bollorè con Vivendi) ed un Cortes in grisaglia (Singer di Elliott), non una compagnia invidiabile. Sul Sole24Ore di sabato 17 Novembre, Alessandro Penati titola il suo editoriale sul caso Telecom “ormai la scelta è solo di che morte morire”, più che un articolo, una sentenza che sembra non lasciare nessuna speranza di rivedere un futuro florido della compagnia, tanto meno di rifarne un campione nazionale. Una sentenza che arriva con 19 anni di ritardo, perché poteva essere emessa già tra il Febbraio e il Maggio del 1999, quando all’annuncio dell’Opa di Olivetti, la risposta dell’allora amministratore delegato Telecom Franco Bernabè fu di offrire la nostra compagnia in sposa a Deutsche Telecom. Una mossa che a quel tempo ricevette il benestare dei ministri Carlo Azeglio Ciampi e Vincenzo Visco.
In pratica bisognava scegliere se mantenere il campione nazionale con la bandiera italiana ma oberato da debiti, o se invece mantenerla snella, ma offrirla in omaggio ai tedeschi. C’era solo da decidere di che morte morire. Anche la successiva mossa di Olimpia, sotto la guida di Marco Tronchetti Provera (con l’aiuto di Benetton) di accorciare la catena di controllo, portando la gallina dalle uova d’oro Tim ai piani alti, per ottenere una maggiore redditività, fu una mera mossa di ingegneria finanziaria. Cercare di abbattere il debito cavando sangue dalle rape, ma è anche vero che sotto la guida di Tronchetti Provera ci fu una proposta reale, un piano industriale che proponeva una convergenza tra telecomunicazione e contenuti (Telefonica e Sky erano i partner potenziali), che la politica di quel tempo fece di tutto per ostacolare fino a bloccarlo. Precorrere i tempi e anticipare troppo, a volte può sembrare un difetto, perché oggi, 10 anni dopo, quell’idea di Tronchetti è un business a tutti gli effetti che produce enormi profitti.
Il risultato della miopia politica (in quel periodo al governo c’era la sinistra) è sotto gli occhi di tutti, un debito granitico, e tanti soldi a pioggia distribuiti, finché si poteva, attraverso generosi dividendi. Telecom Italia (oggi ridenominata TIM) è passata da una capitalizzazione di 53.000 miliardi di vecchie Lire a metà anni ’90, ai circa 8.000 miliardi di oggi, solo per fare un esempio, Vodafone (che di Telecom ai tempi era una potenziale preda) oggi ne capitalizza 53.000 miliardi, ma di Euro. Il difetto del nostro Paese è che pur essendo innovatori nel mondo, non siamo mai capaci di trasformare le eccellenze in bandiere e campioni nazionali.
Da grande impero romano, oggi la Telecom si è ridotta alle dimensioni del villaggio di Asterix, ma non tutto è perduto, perché come nel fumetto di Goscinny e Uderzo c’è ancora un’arma segreta, la pozione magica che in questo caso è rappresentata dalla rete. La Rete nazionale che è sempre stata l’ipoteca sull’enorme debito, la garanzia, lo scrigno del tesoro capace di ripagare tutto, e se volete anche un’arma di ricatto, l’unica possibilità, che se ben gestita può consentire a Telecom di alleggerirsi dalle zavorre e in qualche modo ripartire.
Ma ci vorrebbe un altro Gamberale, un Pascale, a dirigere e trattare, Gubitosi sarà all’altezza? Saprà resistere alle pressioni di incasso e di spremitura di Vivendi ed Elliott? Si spera che quest’ultima carta, la pozione magica della Rete, venga giocata bene, senza farsi condizionare dai consigli del gatto e la volpe. Sarebbe un peccato arrivare a togliersi il debito, con qualche soldo in tasca ma senza avere più i denti per mangiare.
@paninoelistino
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