Economia

Tim, Vivendi sconfitta di nuovo: la campagna d’Italia è un fallimento

Vivendi deve trovare rapidamente una via d’uscita per un investimento che, comunque lo si guardi, rimane fallimentare

di Marco Scotti

Vivendi, la campagna d’Italia di Bollorè è un fallimento

Sconfitto nelle aule di tribunale. Marginalizzato nelle decisioni che contano nonostante sia il primo azionista di Tim. Stoppato con inusitato vigore quando ha provato a prendersi Mediaset. Allontanato senza troppi fronzoli dal salotto buono della finanza, cioè Mediobanca. Non si può dire che la campagna d’Italia di Vincent Bollorè, multimiliardario bretone fondatore di Vivendi, sia stata un grande successo. E l’ultimo schiaffo arriva dalla sentenza del tribunale di Milano sulla cessione della rete, che assesta diversi colpi alla holding francese.

Primo: perché la condanna a pagare le spese legali. Secondo: perché le dice chiaramente che non serviva un ricorso in tribunale, ma piuttosto un’assemblea straordinaria. E qui bisogna fermarsi un attimo e riportare le lancette indietro di oltre un anno. A quell’epoca, infatti, si stava avviando la cessione della rete, Vivendi chiedeva un’assemblea straordinaria per definire l’operazione, ma il cda – da cui i francesi erano usciti in maniera polemica, pur mantenendo il 24% delle azioni – non ci aveva sentito e aveva stabilito che non fosse necessaria. Il risultato è che se Vivendi avesse messo da parte l’orgoglio, conservando qualche poltrona in consiglio, forse le cose sarebbero andate diversamente.

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Più in generale, si certifica con questa sentenza che la cessione della rete, per un prezzo assai inferiore da quanto inizialmente ipotizzato da Vivendi – Arnaud De Puyfontaine aveva sparato 31 miliardi – non abbia avuto un conflitto con il ruolo dei francesi. E anche qui, ci sarebbe da parlare: perché se Vivendi non avesse scelto l’Aventino come tattica di negoziazione ma si fosse sporcata le mani, magari premendo per avere altri incontri con l’esecutivo, avrebbe magari strappato un prezzo migliore.

Perché Cassa Depositi e Prestiti, azionista con il 10%, pare avesse presentato un’offerta abbastanza bassa (eravamo nel marzo del 2023), rendendo quella di Kkr particolarmente interessante. Ma ormai è tutto archiviato, e Vivendi deve trovare rapidamente una via d’uscita per un investimento che, comunque lo si guardi, rimane fallimentare. Il 24% di Tim venne acquistato per oltre 4 miliardi, oggi vale poco meno di 1,5 miliardi.

Questo è il vero nodo intorno a cui si dibatte in Vivendi: a che prezzo vendere e a chi? È noto – perché i francesi non ne hanno fatto mistero – che se qualcuno si presentasse con due miliardi in mano per la quota di Tim verrebbe portato in trionfo sotto la Tour Eiffel. Ma nessuno, per ora, ha tirato fuori un assegno così pesante. E bisogna aspettare anche per capire quali saranno i fondi che vorranno investire in Tim.

Perché se dovesse prevalere la logica “da fondo”, per l’appunto, si rischierebbe che i vari Cvc (o Bain, o Apax) venissero poi stoppati dal governo a mezzo golden power nel caso (molto probabile) di operare uno “spezzatino” con la cessione degli asset pregiati, Brasile in testa. Senza dimenticare che difficilmente i fondi accettano di entrare in minoranza in società dove, oltretutto, la presenza dello Stato (con Cdp) è comunque forte. E dunque Vivendi si dibatte: come uscire dalla campagna d’Italia?