Economia
Ubi, lo sprezzo dei pattisti per il mercato. Cosa c'è dietro il "no" a Intesa
Il rifiuto all'Ops di Intesa nonostante il rapporto fra la bassa redditività-valutazioni della Borsa. Il motivo? Mantenere il controllo con pochi spiccioli...
La reazione era prevedibile. Ma forse non con questa veemenza e soprattutto non con argomentazioni che non ci si aspetta da imprenditori e manager abituati a fare i conti con il mercato. Ieri è stata la volta dei soci Ubi, riuniti nel “Patto dei Mille”, respingere con forza l’offerta di scambio di Intesa sui titoli Ubi.
Prima erano stati altri soci “forti” riuniti nel Comitato azionisti di riferimento (Car) rispondere picche all’offerta della banca guidata da Carlo Messina. Certo non ci poteva aspettare diversamente. Comprensibile la stizza con cui le famiglie imprenditoriali bergamasche e bresciane riunite nei vari patti di sindacato (da Car che raccoglie il 18% del capitale al Patto dei Mille con l’1,6%), hanno accolto l’offerta di Intesa. Venire assorbiti e finire di fatto diluiti nella nuova grande banca che dovrebbe nascere toglie a loro qualsiasi velleità di potere e di controllo sulla banca.
Certo è che le motivazioni addotte appaiono quanto meno puerili. Proprio perché proveniente da uomini che dovrebbero essere abituati a fare i conti con le regole del mercato.
Per Giandomenico Genta, presidente della Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo, azionista con il 5,9% di Ubi “L'operazione prospettata da Intesa Sanpaolo non è coerente con i valori impliciti di Ubi e dunque inaccettabile e irricevibile". Ma tutti i componenti del "Car" hanno respinto come "non concordata, ostile e irricevibile" la proposta avanzata da Carlo Messina. Viene ritenuta insufficiente la contropartita economica. "C'è un patrimonio netto, basta vedere il bilancio", ha detto l'avvocato Mario Cera, vicepresidente del Consiglio di Sorveglianza e membro autorevole del Car. Il Car ha anche espresso l’intenzione di difendere la banca “così com’è e i suoi dipendenti”, sorvolando sui 2mila esuberi che il nuovo piano industriale presentato da l’ad Victor Massiah aveva messo già in conto.
QUANTO VALE DAVVERO UBI PER IL MERCATO
Ma è proprio sul cosiddetto patrimonio netto che lo scivolone appare maldestro. Vero Ubi ha un patrimonio netto di 9,5 miliardi e l’offerta di Intesa vale “solo” 4,89 miliardi. Ma Cera dimentica, e con lui tutti quelli che hanno detto che l’offerta è bassa, che da anni Ubi come gran parte delle banche quotate, con poche eccezioni, viene valutata dal mercato meno della metà del suo capitale. Vale per Ubi, vale per la gran parte del sistema bancario. Le incertezze sui crediti malati in portafoglio e la redditività compressa fanno sì che le banche italiane, dall’inizio della crisi del 2008, valorizzino in Borsa molto meno del loro patrimonio netto. Basta vedere quanto capitalizzava Ubi prima dell’arrivo dell’offerta di Intesa.
Il Ceo di Ubi Banca Victor Massiah
Venerdì 14 febbraio sull’onda della presentazione del piano industriale di Massiah la banca valeva in borsa 3,3 euro per una capitalizzazione di 3,77 miliardi. Lunedì 17 ecco il volo fino a 4,9 miliardi il prezzo offerto da Intesa che vale il 28% di premio sulle quotazioni dei sei mesi precedenti. Oltre un miliardo di valore in più in un giorno solo per tutti i soci della banca.
Certo Intesa compra Ubi valorizzando il 50% del suo capitale. Ma non è colpa di Messina se pur con un premio di quasi il 30% la banca più del 50% del suo capitale non può valere. Del resto è la Borsa che lo sancisce da anni.
Il valore di Ubi negli ultimi 5 anni è stato in media ben sotto il 50% del patrimonio con punte al ribasso anche sotto il 30% del capitale. Basti anche vedere la perdita di valore borsistico nel tempo. Per ritrovare il prezzo offerto da Intesa ai soci di Ubi occorre tornare indietro di quasi 3 anni. Il valore di 4,3 euro offerto da Intesa Ubi lo aveva nel lontano ottobre del 2017. Da allora il titolo è sceso fino ai minimi di 2,2 euro dell’estate scorsa.
La Borsa è avara? Forse, ma una vecchia regola dice che per essere valutati quando l’intero capitale il rendimento su quel patrimonio, il Roe, dovrebbe essere vicino al 10%. Ebbene Ubi pur in ripresa sugli utili ha oggi un Roe di poco più del 4% che di fatto giustifica lo sconto di Borsa sul suo capitale.
Cose che i grandi soci forti riuniti nei vari patti dagli imprenditori tessili Radici, ai Lucchini, a Bosatelli patron della Gewiss, agli armatori Gussalli Beretta, agli Andreoletti, fino alle due Fondazioni di Cuneo e del Monte, sanno molto bene. Quello sconto annoso di Borsa ha a che fare non solo con la redditività ancora molto bassa in termini relativi, ma anche con il fatto che da tempo Ubi copre i suoi crediti malati con tassi di accantonamento più bassi di 10 punti percentuali rispetto alla media del sistema. La banca sostiene che i minori accantonamenti sui crediti deteriorati riflettono il fatto che i prestiti in default avrebbero dietro forti garanzie immobiliari e personali. Sarà, ma in ogni caso è un dato distonico rispetto all’universo bancario.
Tanto che toccherà ad Intesa (se l’operazione andrà in porto) sobbarcarsi gli oneri di maggiori accantonamenti futuri sui crediti malati di Ubi.
QUEI RESIDUI FEUDALI DEI PATTI DI SINDACATO
Ma dietro a questa vicenda si cela una volta di più l’ennesimo bizantinismo finanziario italiano. La vecchia ricetta di detenere noccioli di presunto controllo attraverso lo strumento dei patti di sindacato. Il patto Car assommava fino a pochi giorni fa poco sopra il 18% del capitale. Tolte le due Fondazioni (Cuneo e Monte) che insieme hanno poco più del 10% delle azioni, il restante 8% è suddiviso tra una ventina di grandi famiglie imprenditoriali. Così con poco più, poco meno dell’1% e attraverso lo strumento del patto di sindacato possono far pesare le loro piccole quote molto di più sul piano politico e della gestione.
IL NOCCIOLI DURO: PRENDERE IL CONTROLLO CON POCHI SPICCIOLI
Pochi soldi tutto sommato per trovarsi di fatto a governare la banca, imporre i propri uomini nel Cda e perché no avere rapporti di affidamento privilegiato con l’istituto.
Forse quel modello (i patti e i noccioli o nocciolini di controllo) andrebbe messo in cantina una volta per tutte. Le azioni dovrebbero contarsi più che pesarsi. E se arriva chi scambia i suoi titoli con i tuoi valorizzando la banca il 30% in più del suo valore odierno, più che strepitare di condizioni “inaccettabili” occorrerebbe tacere e magari mettere mano al portafoglio per davvero se si vuole comandare.
A operazioni di mercato si risponde con operazioni di mercato, più che con l’arrocco para-feudale. Bene fa Messina a dire che si rivolge agli azionisti tutti. Soprattutto a quell’80% di soci che non hanno blindato le loro azioni in una piccola consorteria. Sono i grandi fondi di risparmio internazionali e i piccoli azionisti che hanno comprato azioni della banca con un unico scopo: la speranza di poterci guadagnare nel tempo. E che non avranno nessuna remora a consegnare i titoli all’offerta pubblica.
PATTO FRAGILE QUALCUNO HA GIA’ VENDUTO
Vedremo che fine faranno i proclami sulla difesa della territorialità e peculiarità di Ubi da parte dei pattisti. Qualcuno si è già sfilato nel frattempo. Il patto “Car” ha già visto qualcuno vendere i titoli. Già il 18 febbraio, il giorno dopo il blitz di Intesa sono stati venduti 1,1 milioni di azioni Ubi da parte di uno o più pattisti “Car” che da poco sopra il 18% è sceso al 17,7% con 20 aderenti.
ECCO I PORTAFOGLI PERSONALI DEI BIG DELLA BANCA
E si vedrà che faranno delle loro azioni i vari membri dei consigli di Ubi. L’ad Victor Massiah possedeva a fine 2018 (ultimo dato disponibile) 671mila azioni Ubi per un controvalore che supera abbondantemente i 2,5 milioni di euro. Il pattista Car, Armando Santus vicepresidente del Consiglio di Sorveglianza possedeva, a fine 2018, 392mila azioni (1,6 milioni di controvalore); Giuseppe Lucchini tra proprietà e usufrutto vantava addirittura 1,5 milioni di titoli (6 milioni di euro di controvalore). L’avvocato Mario Cera altro pattista Car era titolare di 120mila azioni. E il presidente del Consiglio di Sorveglianza Andrea Moltrasio accreditato a fine 2018 di 250mila azioni. Chissà cosa decideranno da qui all’estate? Vendere, consegnare a Intesa o tenere duro? Lo vedremo.