Economia
Usa via dal Wto. Trump studia il coup de theatre
Pur restando il 1° importatore al mondo, negli ultimi 25 anni gli Usa hanno incrementato l’export in molti settori. Una rottura peserebbe su grandi corporation
L’ultima tentazione di un presidente americano come Donald Trump che da sempre ha mostrato insofferenza per le regole e le istituzioni e che deve trovare il “colpo di teatro” con cui conquistare gli elettori in vista delle elezioni di metà mandato di ottobre, che vedono i Democratici dati in rimonta sui Repubblicani, potrebbe essere l’uscita degli Stati Uniti dal Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio). Lo ha rivelato Axios, sito americano fondato un paio di anni fa dal co-fondatore di Politico, Jim VandeHei, insieme all’ex corrispondente capo dalla Casa Bianca (per Politico), Mike Allen, e a Roy Schwartz (che di Politico era il Chief revenue officer, ossia il responsabile della generazione di ricavi di Politico).
Trump “ha (minacciato di ritirarsi) 100 volte. Ci hanno totalmente fottuto come paese”, avrebbe riferito ad Axios “una fonte che ha discusso l’argomento con Trump”, aggiungendo che il presidente Usa ha più volte ribadito ai propri consulenti: “Siamo sempre stati fottuti da loro (il Wto). Non so perché ci siamo dentro. Il Wto è progettato dal resto del mondo per avvilire gli Stati Uniti”. Trump non è nuovo a queste intemerate, avendo già definito il Wto nel luglio 2016, durante la sua campagna presidenziale, “un totale disastro”. Per la verità, ha subito fatto notare Axios, il Wto ha raramente danneggiato gli interessi americani, visto che nelle cause affrontate gli Usa hanno vinto nell’85,7% delle volte, contro un tasso di successo della Cina del 66,7%.
Ma a Trump non sembra importare come stiano realmente le cose, quanto trovare un argomento in grado di colpire l’elettorato americano e questo nonostante i suoi consiglieri finora non abbiano dato corso ai desideri di Trump avviando alcun tipo di procedimento politico per rendere concreta la minaccia. Il ricordo di quanto accaduto coi dazi, dove Trump alla fine ha semplicemente scavalcato i suoi stessi consiglieri annunciando prima dazi sulle importazioni di alluminio e acciaio, poi attaccando direttamente Cina ed Europa, induce tuttavi alla cautela i mercati che iniziano a calcolare cosa significherebbe nel concreto questa decisione per gli scambi mondiali e chi subirebbe i danni maggiori.
Con esportazioni per quasi 1.400 miliardi di euro e importazioni per circa 2.100 miliardi, gli Usa sono contemporaneamente il secondo maggior esportatore al mondo (il primo è la Cina con quasi 2.060 miliardi, mentre la Germania è terza con poco più di 1.200 miliardi) e il primo importatore (davanti alla Cina, con oltre 1.500 miliardi di inport, e alla Germania, che non raggiunge i 1.000 miliardi), per cui le minacce di Trump rischiano di penalizzare nel complesso più il “resto del mondo” presente nel Wto di quanto non rischino di penalizzare gli stessi Stati Uniti.
Ma a livello di singole aziende le cose stanno alquanto diversamente: dal 1993 a oggi, ad esempio, gli Usa sono passati dall’avere 6 categorie merceologiche in grado di registrare esportazioni per oltre 10 miliardi di dollari l’anno a ben 22 categorie e mentre 25 anni fa non c’era neppure un settore che esportava per oltre 100 miliardi di dollari, ai giorni nostri l’industria aeronautica ci riesce benissimo. Trump rischia così di coalizzare il resto dei partecipanti al Wto, come già accaduto dopo il ritiro degli Usa dal Ttp (il trattato commerciale trans-pacifico sottoscritto comunque da Giappone, Canada, Messico, Cile, Nuova Zelanda, Australia, Brunei, Vietnam, Perù, Singapore e Malesia), e di danneggiare società come Boeing, Lockheed Martin, United Technologies, ma anche General Electric, Northrop Grumman e Raytheon, finora tutte nella top 10 dell’industria aeronautica mondiale. Se ne avvantaggerebbero, al tempo stesso, gruppi come Airbus e Leonardo, oltre a Bae System e Safran.
Altri settori “a rischio” per le aziende americane sarebbero il settore petrolifero con ExxonMobil, Chevron e Valero Energy che potrebbero risentirne, non meno di ConocoPhillips, Eog Resources, Anadarko Petroleum, Pioneer Natural Resources, Apache, Devon Enegy ed Hess, solo per citare le aziende più importanti. In questo caso qualche beneficio potrebbero trarlo rivali come Saudi Aramco, di cui da tempo si attende lo sbarco sui listini, Sinopec, Cnpc, PetroChina, piuttosto che Royal Dutch Shell, Kuwait Petroleum, BP, Total, Lukoil o l’italiana Eni. E ancora: tra i settori di punta dell’export americano vi è il settore auto-moto, quindi per General Motors e Ford il beneficio derivante dalla ridotta competitività dei prodotti di concorrenti asiatici ed europei da Toyota a Honda, da Nissan a Bmw, da Daimler a Volkswagen piuttosto che Renault, Peugeot o Ferrari verrebbe compensato dal rischio di vedersi chiuso lo sbocco sui mercati mondiali.
Questo potrebbe rimescolare nuovamente le carte portando alcuni produttori ad imitare Harley Davidson, che ha già fatto sapere di essere pronta ad incrementare la produzione all’estero, presumibilmente in Asia (solo per essere subito minacciata da Trump di venire, in quel caso “tassata come nessuna azienda è mai stata” prima), oppure a cercare di entrare sul mercato americano acquisendo marchi o impianti produttivi, come fatto a suo tempo da Fiat con l’acquisto di Chrysler. E che dire infine dei produttori di microchip? Intel nel 2017 ha generato ricavi per 12,54 miliardi negli Usa, ma al tempo stesso per 14,8 miliardi in Cina, per 14,3 miliardi a Singapore, per 10,5 miliardi a Taiwan e per complessivi 10,6 miliardi nel resto del mondo.