Economia
Vittorio Malacalza imprenditore d'acciaio, da Pirelli alla finanza. La storia
Il ritratto dell'imprenditore Vittorio Malacalza e del suo amore per la città di Genova, per cui ha versato molti soldi, perdendo molto e per ora guadagnandoci
“Al Genoa scriverei una canzone d’amore, ma sono troppo coinvolto” questa era la frase che campeggiava sulle magliette del Genoa calcio nel gennaio 2017 prima della partita tra il Genoa e la Roma, una frase che voleva ricordare Frabizio De Andrè, grande tifoso della squadra, frase pronunciata dal cantautore durante un concerto quando tra una canzone e l’altra esclamò “ho una malattia” e prendendo la sciarpa del grifone, tra il sollievo dei suoi fans gridò “si chiama Genoa”. Sentimenti che possono essere accomunati a Vittorio Malacalza, genovese di adozione e genoano per fede, che per Genova sembrerebbe disposto a tutto, anche immagino a scrivere una canzone, sebbene non sia questo il suo ruolo, e che forse per Genova ha fatto ancor di più, ha versato palanche, perdendo molto e, per ora, guadagnandoci molto poco. Più che amore, per Malacalza come per De Andrè quella per il Genoa e Genova altro non è che una vera malattia. Una malattia trasmessa ai due figli Davide e Mattia, entrambi tifosi della stessa squadra di calcio, con il quale il padre condivide anche l’avventura finanziaria tramite la “MalacalzaInvestimenti”, la cassaforte di famiglia di cui i figli sono entrambi possessori del 48%, mentre al padre rimane il 4%.
Vittorio Malacalza nasce il 17 settembre del 1937 a Bobbio nel piacentino, in quello che è considerato il suo buen retiro, un luogo che abbandonerà presto, a soli 24 anni interrompendo gli studi in ingegneria (probabilmente a causa della morte del padre) per trasferirsi in quella che sarà la sua città d’adozione, croce e delizia, fortuna e sofferenze per i suoi affari, Genova la città che come per Paolo Conte è il luogo dove non si è nati, ma che lo stesso si ama.
Un amore, come tutte le grandi passioni, quelle vere tormentate che struggono, per Conte il cuore e per Malacalza anche il portafoglio. Perché Genova è difficile, e forse per questo affascina, perché a Genova fare affari non è semplice come a Milano, qui è tutto più complesso e ostacolato.
La fortuna di Malacalza, il momento della prima svolta, arriva a metà degli anni ’80, quando dopo un lungo periodi di dirigenza all’Ansaldo e un’avventura con il fratello nella progettazione e produzione di componenti per l’energia, acquista una partecipazione in Duferco, una delle più importanti aziende al mondo nel trading di prodotti siderurgici, azienda di cui diventerà l’amministratore. L’acciaio da business si trasforma anche in una passione accesa, forse perché l’uomo si rispecchia nella materia, un carattere forte come l’acciaio, ma a volte anche spigoloso. Lo scoprirà Bruno Bolfo, socio di Malacalza nell’operazione, un sodalizio che dura 10 anni e che improvvisamente si interrompe e dal quale Malacalza costruisce la sua prima fortuna. L’uomo è così, d’acciaio, fin da piccolo ha imparato a badare a se stesso, a cavarsela in ogni situazione, ed ora nell’età adulta si rende conto di saper moltiplicare, attraversando settori diversi e come una palla di neve che viaggia al contrario, ingigantisce il suo impero, sia in proprietà che in quantità di palanche.
A metà anni novanta comincia il viaggio affaristico con i figli Davide e Mattia, prima acquistando Trametal, successivamente valica il confine per conquistare Spartan (azienda inglese), entrambe le società verranno gestite e rilanciate dai figli. Ma non di solo acciaio è fatto l’uomo, sa anche diversificare, nel 2001 la Superconduttori rilevata da Ansaldo energia, passando per il biomedicale con la Columbus, per arrivare a Ombra società di costruzioni. Nel 2007 arriva la prima consacrazione con il grande affare: la vendita dell’acciaio ai russi, incassando qualcosa come un miliardo di euro. Un miliardo di euro in liquidità nel 2007 vale come una montagna d’oro, perché Malacalza, dimostrando un tempismo micidiale, vende poco prima che scoppi la bomba dei subprime, poco prima che il mondo economico si paralizzi lui osserva implodere tutto seduto su una montagna di liquidità, il sogno di ogni speculatore, anche se lui speculatore non è. Da quel momento in poi verrà soprannominato come l’imprenditore più liquido d’Italia. Strattonato da tutti, mentre l’Italia viene inghiottita, cercano tutti un suo sguardo, il suo portafoglio perché è l’unico salvagente sicuro per salvarsi in questo mare in tempesta che è la crisi finanziaria 2007/2008 appena cominciata.
Ma quella di Malacalza non è una vita costellata solo di successi e affermazioni. “Genova per noi/che stiamo in fondo alla campagna/e abbiamo il sole in piazza rare volte/e il resto è pioggia che ci bagna” canta Paolo Conte, ma di pioggia Malacalza ne ha presa molta anche a Genova. Le sofferenze, i fallimenti e le delusioni a Bobbio, la morte del padre, si rincorrono anche a Genova, prima in gioventù con l’abbandono degli studi e successivamente in età adulta con la sconfitta e la mancata nomina in Confindustria, l’affare saltato per la privatizzazione di Ansaldo Energia su cui Finmeccanica lascia cadere l’offerta e il mancato rilancio, in tandem con Marcellino Gavio, della Ferrania, un esperimento che si consuma in pochi anni senza nessun successo. Genova brutale, anche la sua passione, il calcio, gli viene negata. Essendo carico di liquidità, più volte viene accostato il suo nome al Genoa, candidato favorito e dato per certo, dato come salvatore di una società sull’orlo del fallimento, ai primi del 2000 vede farsi soffiare il Grifone da Preziosi che gli nega la meritata gloria. Genoa e Malacalza, due protagonisti che si incrociano più volte anche durante la presidenza di Preziosi, ma che mai riuscirà ad indossare la maglia rossoblù, resterà solo un tifoso, lui e i figli, tra i più appassionati.
Lui ama Genova ma non sembra ricambiato, come abbiamo già detto lì è tutto più complicato, infatti gli affari decide di andare a farli altrove, a Milano dove tutto è più facile. Ed è proprio nella capitale lombarda che trova la seconda pentola d’oro che lo porterà anche agli onori della cronaca con tanto di corona e premio partita. La vicenda è quella di Pirelli/Camfin, il coinquilino poi avversario è Marco Tronchetti Provera. L’avventura comincia nell’estate del 2010 quando la famiglia Malacalza (i figli sono sempre con lui) rileva il 3,5% di Camfin. Successivamente entra nella partita come socio industriale, con l’intento di sostenere ogni opera di sviluppo, punta 100 milioni aumentando la quota Camfin al 12,5% (raggiungerà quota 25% tallonando Tronchetti Provera) e il 30% di GPI. Buoni propositi e appoggi che si infrangono contro il muro del debito, 150 milioni che devono essere restituiti alle banche e su cui i due soci principali divergono: Tronchetti propenso ad un prestito, Malacalza per un aumento di capitale. Uno strappo che non si ricucirà mai più. Uno scontro che si trasformerà in contesa giudiziaria e che si concluderà nel 2013 quando i Malacalza rilanceranno il proprio investimento partecipando al riassetto del gruppo, attraverso una conversione in azioni Pirelli con una quota del 6,98%. Altri due anni di blocco, sino ad arrivare al lieto fine, nel 2015 quando i cinesi di ChemChina, attraverso l’operazione “Marco Polo” lanciano un’opa su Pirelli a 15 euro per azione, un’offerta a cui è impossibile dire di no. Un affare che fa tutti felici, non solo Malacalza, ma tutta la compagnia di giro, guadagneranno persino i Benetton (150 milioni di plusvalenza su 330 investiti) ma questa è un’altra storia.
Malacalza è quello che fa il bottino maggiore, 320 milioni di investimento iniziale, in ottica di lungo termine, si trasformano in soli 5 anni in un guadagno “istantaneo” con una plusvalenza netta di 300 milioni a cui vanno aggiunti i due dividendi, 12 milioni (2014) più 11 milioni (2015) che porta a un totale finale di 323.
Prima i russi, ora i cinesi, come dice il detto “nemo è profeta in patria”, figuriamoci se la patria si chiama Genova, avara di sentimenti, generosità e anche di palanche.
Non pago, inseguendo quell’amore che lo rifugge, Malacalza sempre attraverso la sua cassaforte “Malacalza Investimenti”, riversa gran parte del guadagno dell’operazione Pirelli in Banca Carige, 250 milioni che corrispondevano al 17,58% della banca, 250 milioni che saranno gettati in quello che si rivelerà un pozzo senza fondo, un buco nero in cui i soldi, fino ad ora, non sono ancora stati ritrovati.
“Nella mia storia imprenditoriale tutto quello che mi ha spinto ad investire è stato il business” tradotto le palanche, ed è proprio qui che emerge l’amore e la malattia per Genova, perché Banca Carige per come è messa nel 2015 è tutto fuorché un business e una fonte di guadagno. Travolta da indagini ed inchieste, perquisita da Bankitalia e Procura, mortificata da Berneschi che per vent’anni è stato il capitano della nave portandola alla deriva rischiando di farla affondare.
Malacalza fino a quel momento lontano dalle banche e dal mondo della finanza, decide di guardarci dentro, e con un gesto romantico d’altri tempi, compra, investe respingendo l’attacco di fondi stranieri, la banca storica deve rimanere nella sua sede storica: Genova. Risultato a oggi, 3 anni dopo, un bagno di sangue, di perdite e quasi anche una sconfitta morale, perché nell’ultima assemblea di qualche giorno fa, il rischio e la beffa era quello di vedersi sottrarre il controllo da un raider che aveva deciso di soffiargli la banca proprio ora quando la purga e la pulizia sembrano completate. Sarà stato per la sua tempra d’acciaio, o forse anche perché l’assemblea si svolgeva proprio a ridosso del giorno del suo compleanno, il controllo è rimasto saldo nelle sue mani, ora per Carige, dopo 3 anni e molti soldi versati (Malacalza si è giocato tutta la plusvalenza fatta con Pirelli), sembra ora pronta alla vera occasione di rilancio. Nuovi manager, conferma del controllo, alleggerimento delle zavorre degli Npl e la prospettiva di un matrimonio, ma con chi?
Si parla di MPS, banca a cui il nome di Malacalza è già stato accostato, ancor prima di approdare in Carige.
L’ultimo ostacolo sembra essere Draghi, il dominus della finanza europea, che più volte ha voluto avere voce in capitolo sia sulla vicenda ligure e sia in generale sul sistema bancario tricolore. Un’abitudine e una “intrusione” che già si erano viste tra il 2006 e il 2011 quando Draghi era il governatore di Bankitalia, un periodo in cui il sistema bancario italiano ha subito una rivoluzione e l’inizio di una sofferenza. Estromesso Fazio tra il 2005 e il 2007 le banche italiano hanno subito l’invasione, molti istituti sono passati sotto la bandiera straniera, pochi e costosi, come mele avvelenate, sono passate sotto il controllo italiano. Successivamente la crisi è stata affrontata in modo discutibile, mentre le banche tedesche e francesi si ricapitalizzavano, quelle italiane venivano lasciate ai box. Un trattamento opaco, che lascia qualche ombra, perché oggi nella terza fase di aggregazione e matrimoni anche transnazionali (la prima fase fu quella sotto la regia di Cuccia nel 1997/1998) le banche italiane sembrano quella più indebolite e con minori possibilità di attacco. Le strade sono due: essere conquistate, o tentare tante aggregazioni tra piccole per diventare più rispettabili.
Questa è la sfida che ora attende Carige e il suo condottiero Malacalza che come si è dimostrato sarà pronto a vendere cara la pelle pur di portare a casa una vittoria, sia anche una vittoria morale, di sentimenti.
A Genova dicono “a salùte sensa dinae a l’é ‘na mèza moutìa”, la salute senza soldi è una mezza malattia, quella che Genova è per Malacalza, una costante perdita di denaro, una malattia a cui ancora non è stata trovata la cura.