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Elisabetta Franchi e le scomode verità dell'imprenditoria italiana

Elisabetta Franchi si trovi un bravo brand journalist, ma l’imprenditoria italiana rifletta sulle sue parole


Proviamo a interrompere la lapidazione mediatica di Elisabetta Franchi, per fare un ragionamento più costruttivo? Chi è senza peccato scagli pure la prossima pietra, ma l’ormai famigerato discorso della stilista dovrebbe servirci per fare luce su uno dei mali dell’imprenditoria italiana. Molto è già stato detto sulla questione femminile e oltretutto non sono uno di quegli uomini che si arroga il diritto di parlare a nome delle donne. Mi limito a dire che anche io sono rimasto a bocca aperta, proprio perché era una donna a dire certe cose, ma nelle parole della Franchi ho visto anche un altro elemento di gigantesca criticità: quella spinta a lavorare “h24” che qui a Milano è una sorta di mantra e che anche io conosco piuttosto bene per esperienza diretta, visti i ruoli ricoperti e la passione per ciò che faccio. Quindi, senza la pretesa di voler dare lezioni a nessuno, trovo opportuna una riflessione su un modello che, in buona sostanza, utilizza lo stakanovismo estremo come arma per ottenere un vantaggio competitivo, affermando in maniera nemmeno troppo implicita che - nei tempi considerati normali dalla cultura e dalle norme sul lavoro - non si riesce a produrre il risultato desiderato. Con tanti saluti alle migliaia di imprenditori che con le loro PMI fanno andare avanti il Paese creando ricchezza nel rispetto delle regole e delle persone, a cui magari danno anche extra in questa fase di grande difficoltà sociale.

Lavorare per obiettivi: il vero smart-working

Se nei tempi canonici non si riesce a produrre la performance desiderati – e indubbiamente in certi casi avviene – risulta più costruttivo approcciare la questione da un altro punto di vista, ovvero concentrarsi non sulle ore di lavoro, ma sui risultati che vengono prodotti. Dopo oltre due anni di lavoro da remoto reso necessario dal Covid, continuiamo a confondere questa modalità con lo smart-working, che invece è ben altro: si tratta, appunto, di spostare il criterio della misurazione del valore della prestazione dalla sua durata giornaliera ai suoi risultati effettivi, lasciando al lavoratore l’autonomia (in vari gradi) di gestire il proprio tempo di produzione. Molti lo vivono come una sorta di “benefit” ai dipendenti, che possono – ad esempio – fare una call mentre fanno la spesa. In realtà, il vantaggio è assolutamente reciproco, perché il datore di lavoro ha la facoltà di misurare (ed eventualmente di contestare) l’effettiva produttività del lavoratore, che in linea teorica potrebbe anche trascorrere 24 ore al giorno in ufficio, ma senza generare un reale valore aggiunto per l’azienda. 

“H24”: lavorare per vivere o vivere per lavorare?

Un altro elemento che mi pare foriero di riflessioni è la totale sovrapposizione tra identità personale e professionale, della quale abbiamo già parlato (leggi QUI) a proposito del reddito di cittadinanza. Lavorando in posizioni apicali e a diretto riporto della proprietà, ho spesso riscontrato che gli apporti più efficaci arrivavano da chi, oltre al più proficuo impegno professionale, nutriva anche altri interessi nella vita, sviluppando così quelle soft-skill che sono sempre più richieste dai recruiter, poiché fanno la differenza, specialmente in alti livelli di professionalità. Per quanto il ruolo professionale sia senza dubbio uno degli elementi che maggiormente ci caratterizzano, anche al di fuori del luogo del lavoro, non è indifferente tenere presente che si lavora per vivere. Molti si chiedono come avere successo nella vita, scordandosi però che il presupposto necessario è quello di avere una vita. Stupisce che, proprio in un ambito fortemente caratterizzato dalla creatività come quello della moda, Elisabetta Franchi possa trascurare il contributo dato da chi magari non lavora “h24”, perché ogni tanto gli punge vaghezza di leggere libri, andare a teatro, informarsi sul mondo circostante e quindi sviluppare costantemente la propria cultura personale, oltre che le proprie competenze professionali. Mi rendo conto che a qualcuno queste considerazioni possano sembrare utopiche e magari un po’ radical-chic, ma il problema è proprio questo: in altri paesi rappresentano l’abc di una nuova concezione del work-life balance, che si traduce in scelte concrete come la settimana corta, un welfare aziendale più evoluto e, appunto, uno smart-working degno di questo nome. Scelte compiute non per beneficienza, ma perché si è dimostrata la diretta correlazione tra migliori condizioni di lavoro e superiori performance professionali. Anche le grandi aziende del made in Italy (ma non solo loro) lavorano sull’employer branding, finalizzato a trattenere i migliori talenti, piuttosto che a spremerli fino all’ultima goccia di energia, lasciandoli infine svuotati e magari in burn-out, alla ricerca della prima occasione buona per cambiare aria.

Il brand journalism e la crisis communication

Faremmo quindi un enorme errore nel considerare Elisabetta Franchi come una sorta di variabile impazzita in un sistema perfetto. Al contrario, dovremmo cogliere l’opportunità involontariamente fornitaci dalla stilista (ma non per questo meno preziosa) per farci un serio esame di coscienza su dove stiamo andando come sistema produttivo del Paese. Certo, lei è stata protagonista di un autogol comunicativo veramente clamoroso, ma non è il caso di infierire su chi è già in difficoltà e quindi mi limito a consigliarle di ricorrere al supporto non solo di un bravo p.r. (mi pare che i margini di miglioramento siano notevoli), ma soprattutto di un bravo brand journalist, perché la rigenerazione della sua brand reputation richiederà tempo e capacità più articolate. E, soprattutto, la necessità di andare oltre le parole, per sostanziarle con dei fatti concreti dei quali il brand journalism è il più efficace testimone. Smettiamola, però, di farne un capro espiatorio, perché questo ci spingerebbe ad ignorare quanto il problema sia diffuso e di quanti passi avanti possiamo e dobbiamo fare in termini di cultura del lavoro.
 

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