Spettacoli

Boom Netflix con la docuserie su Wanna Marchi, Stefania Nobile e Do Nascimento

Quattro puntate con ingredienti esplosivi: camorra, minacce, televendite, truffe, maghi, un marchese amico di Dell’Utri, Striscia e il dramma delle vittime

La miniserie Netflix "Wanna" è già un cult: il fenomeno mediatico

 


Netflix fa ancora centro con “Wanna”, una docuserie che coniuga il successo di pubblico – è già un cult – con l'apprezzamento della critica per l'alto livello qualitativo di questo genere di prodotti. Lo stile narrativo è simile a quello di Sanpa”, ma con una sostanziale differenza: se la ricostruzione della vicenda di Vincenzo Muccioli ha portato alla luce fatti e punti di vista poco conosciuti, inevitabilmente dividendo l'opinione pubblica, in questo caso il giudizio sulla condotta dei protagonisti è unanime. 

 

Wanna Marchi, il compagno Francesco Campana, la figlia Stefania Nobile e Mario Pacheco Do Nascimento (passato agevolmente da maggiordomo di Attilio Capra a sedicente “maestro di vita”) sono stati condannati prima dall'opinione pubblica, dopo un'inchiesta di “Striscia di Notizia” che fece ascolti degni della nazionale di calcio, e solo dopo dalla magistratura. “Wanna” non gioca quindi sullo scontro tra colpevolisti e innocentisti, anche perchè la lotta sarebbe impari, e il fatto che le imbonitrici non abbiano mai manifestato alcun pentimento, come dichiarato dai titoli di coda, non fa che cristallizzare la situazione.

Gli elementi di novità, almeno per il grande pubblico, non mancano: dal ruolo svolto dal suddetto Capra, vicino a Marcello Dell'Utri, a quello di una collaboratice che racconta dei suoi contatti con la camorra, l'ipotesi di un "tesoro" occultato ai magistrati e anche quella che il pianto della Marchi di fronte al giudice fosse stato una recita concordata col suo avvocato difensore (che nega sui entrambi i punti).

Tuttavia, non è questo il segreto del fulminante successo del ritorno in tv della leggendaria coppia Wanna Marchi-Stefania Nobile, quando il fatto che nelle sole quattro puntate della miniserie - ottima scelta di format - viene concentrato un cocktail esplosivo di ingredienti. 

Troviamo il rampantismo anni '80 (il substrato culturale dove nasce il personaggio), campioni dell'epoca che spaziano da Roberto da Crema a Joe Denti, il dramma umano delle vittime consumate dalla vergogna per la loro credulità (oltre che dai bonifici), l'aggressività del linguaggio usato con le “grassone” che dovevano comprare i prodotti per dimagrire, il fortissimo legame simbiotico tra madre e figlia (Stefania è l'unica a cui Wanna chiede scusa, proprio per averla legata troppo a se'), l'impresa di una donna che, con la sola licenza elementare, accumula un patrimomio di miliardi di lire, e infine anche il narcisismo sfrenato della telestar, che a un certo punto si convince di essere talmente brava da avere il diritto di vendere a prezzi da gioielleria qualunque prodotto.

Anche quelli di nessun valore. Anche quelli inesistenti. Come la fortuna e i talismani contro il malocchio.

È il suo avvocato a testimoniarlo per la docuserie, spiegando credibilmente la motivazione psicologica dell'assenza di pentimento e la nemesi delle sue assistite, "uccise" metaforicamente dalla tv, che aveva donato loro una vita di celebrità e ricchezza. Una vicenda che, a vent'anni dal clamoroso arresto, colpisce ancora il cuore degli italiani.