Esteri

Afghanistan, donne nemiche delle donne. Ecco dove porta la follia dei talebani

di Maria Rita Parsi

E che la più terrificante delle difese psicologiche messe in atto dagli esseri umani per contrastare la consapevolezza di essere nati ma, alla fine, di dover morire è, non a caso, “la difesa auto ed etero distruttiva”. Ovvero: “Io morirò ma morirete tutti”. Per questo motivo, nel darsi e nel dare la morte agli altri, “i signori della guerra” e quelli della droga e dei compromessi, credono di potersi garantire un potere capace di dare loro “l’immortalità”.

Un’immortalità che, incredibilmente, fantascientificamente, favolisticamente, dovrebbe essere assicurata loro proprio da quel Dio che essi, quotidianamente, offendono con l’insultante, affermativa bestemmia, di compierli nel suo nome. E, dunque, di attribuire a Lui gli orrori di cui si macchiano. Orrori che Dio - se è Dio e se è tale! - mai avrebbe potuto ipotizzare. E, ancor meno, ne avrebbe affidato la realizzazione a simili adepti, intenzionati, poi e non a caso, a scaricarne la responsabilità sulle donne e sul “serpente-cordone ombelicale” che, reciso all’atto di nascere, li separa da Eva, la prima delle donne, scaraventandoli fuori dal Paradiso Terrestre del grembo materno. Vero è che si tratta di un evento - quello del nascere - che riguarda tutti.

Maschi o femmine, indistintamente. A fare la distinzione, però, è l’irrilevante particolare che chi nasce femmina eredita la possibilità, con il proprio grembo, di dare vita alle forme della vita. Certamente con il seme dell’uomo che, però, andrebbe - ahimè! - inutilmente sparso se, non ci fosse, a disposizione, quel “laboratorio neurobiochimico” capace di fabbricare, durante la gestazione, le forme della vita di ciascun essere umano e di tutti. Costringendoci a sperimentare il primo e più doloroso dei distacchi: quello dalla madre. Per consegnarci, quale primario “imprinting” - dal dentro al fuori - all’esperienza di dipendere totalmente dal cibo e dalle cure - si spera, amorose - che ci verranno prestate.

Dipendenza totale che certi maschi, non essendo nati donne, ripropongono loro, sottomettendole proprio come sottomettono collettività e popoli. Per tutti, infatti, uscire da quella primaria dipendenza, per crescere, guadagnare la propria autonomia, trasformare “la colpa” del nascere nella responsabilità del vivere è, assai spesso, un percorso arduo, faticoso e, perfino, doloroso. Per affrontare il quale - alla maniera indicata dal filosofo Immanuel Kant - è necessario utilizzare, nel modo migliore, l’intelligenza - se, c’è! - intesa come “ qualità dell’anima”. Qualità capace di metterci in grado, di volta in volta (step by step), di sperimentare e di superare il maggior numero possibile di incertezze e prove. Incertezze, prove, dubbi, paure, difficoltà, distacchi, frustrazioni delle quali, insieme alle gratificazioni, alle gioie, alle vittorie e ai successi, è lastricato il percorso - buche, comprese! - d’ogni umana vita.

E che, se vissute in tal modo, potrebbero, alla fine, costituire - se solo lo volessimo e lo potessimo - ovvero, se solo ci procurassimo i più adeguati strumenti, scientifici ed umanistici, per affrontarle! - la migliore e la più vitale delle imprese di ciascuno e di tutti. Uomini e donne! Accettando, però, la totale, paritaria uguaglianza, pur nella differenza (diversità!), tra i sessi. Senza, dunque, pretendere di dominare o di tenere sotto ossessivo, possessivo controllo, i corpi delle donne, in quanto origine primaria di ogni vita, destinata, nel tempo, a consumarsi e ad incontrare - ciascuno in prima persona - la morte. E, in tal senso e in tal modo, imparando a comprendere, accettare, superare i distacchi, i cambiamenti, i tradimenti del corpo e della mente, i ricordi “colore del grano”, le gioie e i dolori, essenza stessa dell’amore per la vita che si traduce in un “vero sé!”. Ovvero della vita poeticamente intesa come “un dolore che non passa mai, un piacere che non passa mai, finché non passa la vita!”.

Vita alla quale solo l’Amore, incondizionato e generoso, libero da ogni abbandonica paura, da ogni minaccia, sottomissione, oppressione, perversione, è capace di offrire la possibilità di battere il Dio del Tempo, Crono che divora i minuti della nostra esistenza. E di fermarlo, consentendoci, alla fine, di non avere paura di vivere la vita, pensando e temendo (costantemente) la morte. E, soprattutto, il segreto che, proprio la morte, nasconde. E che, forse, ci rivelerà se esiste veramente, nella luce e nello spazio senza tempo, la possibilità, per noi, di essere, comunque, immortali. Al punto di considerare la morte non come un’inevitabile condanna, ma come un liberatorio passaggio da rendere, fisicamente e mentalmente, il meno doloroso possibile. Un passaggio finale da non anticipare né da estendere, anticipatamente, ad altri e che è prevedibile e previsto, per ciascuno, in ragione del proprio Destino.

Poiché, se si nasce passando dalla “Simbiosi” del “due in uno” alla “Diade”, madre- neonato, si muore, invece, sempre e soltanto, in prima persona, quale comune Destino. Destino del quale la Fede, la libertà di pensiero e di azione, l’informazione, la formazione, la cultura, le arti, il progresso umanistico e scientifico, il rispetto delle leggi, dei diritti umani delle persone e, soprattutto, quelli delle donne e dei bambini, e della loro identità sessuale di genere e, al contempo, il netto rifiuto d’ogni violenza, guerra, persecuzione, sfruttamento, corruzione, crimine, dissesto ecologico e della perversione traumatica indotta dalle droghe, dall’alcol, dall’azzardopatia, dalla pornografia e dalla pedopornografia, possono garantire la più necessaria e sicura delle basi. Sulle quali radicare un mondo, finalmente, migliore e a misura di esseri veramente umani. Maschi o femmine che siano!