Esteri
Aukus, dalla corsa all'atomica ai progetti di difesa comune europea
La geopolitica in alto mare. Effetti e conseguenze a lungo raggio di Aukus
E di nuovo, come sempre, è tutta questione di Storia. La Storia insegna come le prime grandi civiltà si siano sviluppate lungo il corso dei fiumi, formidabili arterie di comunicazione, oltre che garanzia per un’agricoltura florida e produttiva. Salendo di scala, sempre l’acqua – sempre le acque – hanno garantito scambi commerciali e culturali, viatico e al contempo sprone per la genesi dei più grandi imperi della Storia.
Pensiamo al Mare Nostrum dei Romani, colonizzato e latinizzato a partire dalle Guerre Puniche: e, prima ancora, al Mediterraneo dei Greci, culla della Democrazia, culla della Scienza e della Filosofia e, in quanto tale, primo vero embrione d’Europa.
Poi, salendo ancora, ci sono gli oceani. L’orizzonte misterioso dell’Atlantico, a cavallo del quale Carlo V dispiegò un impero dove non tramontava mai il Sole, e ancora e ancora, lungo le tappe della Storia, fino alle emigrazioni di massa verso gli Stati Uniti, che hanno caratterizzato l’incipit geopolitico del XX secolo.
Oggi il baricentro di “hard-power” acquea si è spostato nel Pacifico. E non a caso, il patto trilaterale di sicurezza Aukus è stato etichettato come una sorta di “nuova NATO” (North Atlantic Treaty Organization), traslata, per l’appunto, nel Pacifico. E in grado di determinare un vero e proprio tsunami diplomatico fra Alleati.
Alla Francia, comprensibilmente, non è andato giù l’essere stata estromessa da un accordo di fornitura pantagruelico: 12 sottomarini a propulsione tradizionale (diesel combinato con elettrico) che Parigi avrebbe dovuto consegnare a Camberra entro il 2040. Ricavandone qualcosa come 56 miliardi di euro, oltre all’indotto occupazionale dei cantieri che Naval Group (controllata dallo Stato francese) avrebbe aperto direttamente ad Adelaide. L’accordo, elemento decisivo di un partenariato cinquantennale fra Parigi e Camberra, era stato sottoscritto il 20 Dicembre 2016: per la Francia dall’allora Ministro della Difesa – e oggi Ministro degli Affari Esteri – Jean-Yves Le Drian. Lo stesso che ha commentato con parole al vetriolo l’ufficializzazione di Aukus, bollandolo come “decisione unilaterale, brutale e imprevedibile, che ricorda molto il modo di agire del Presidente Trump, ma senza tweets”.
Al di là delle recriminazioni economiche (chiaramente un vulnus per la Francia) ci sono tuttavia una serie di elementi e considerazioni geostrategiche destinate a pesare per gli anni, e finanche per i decenni, a venire.
Primo, l’accordo con l’Australia rappresentava per Parigi l’opportunità concreta e fattiva di consolidare la propria presenza e influenza nell’Indo-Pacifico: Zona Economica Esclusiva (ZEE) dove i Francesi contano 9 milioni di chilometri quadrati di territorio, fra la Nuova Caledonia e Tahiti. Una sorta di enclave occidentale in piena Asia, capace di elevare il sentimento di grandeur francese dalla dimensione europea a quella di potenza occidentale globale. Aspirazioni da ridimensionarsi in seguito alla stipula di Aukus che, unendo in sodalizio Australia, Regno Unito e U.S.A., fortifica e rende innegabile il primato dell’anglosfera in quella parte di mondo. Almeno per quanto concerne la côté occidentale: l’altro grande protagonista è infatti, ovviamente, il Dragone cinese.
Già, la Cina: macro-fattore di destabilizzazione geopolitica che ha spinto l’Australia ad armarsi, irrobustendo la propria marina con una flotta di sommergibili agili e performanti. La richiesta iniziale, avanzata da Camberra alla Francia, ineriva la fornitura di 12 sottomarini a propulsione nucleare: i più efficaci, in grado di garantire immersioni prolungate, limitate solamente dall’approvvigionamento di acqua e viveri per l’equipaggio e capaci di eludere la sorveglianza del nemico.
Un’ipotesi, del valore di 31 miliardi di euro, scartata in corsa dalla stessa Australia, la quale, per non pregiudicare la possibilità di navigazione in acque neo-zelandesi (Wellington, infatti, non ammette che mezzi militari spinti dall’energia atomica solchino i suoi mari) aveva richiesto alla Francia di commutare la fornitura in 12 sottomarini diesel-elettrici. Istanza accettata, con un’inevitabile dilazione dei tempi di consegna (la progettazione era già stata avviata) e un incremento dei costi (saliti a quasi 60 miliardi). Questo per scagionare Parigi dalle accuse di non stare comunque onorando tempi e requisiti della commessa.
Nondimeno, se sul piano della correttezza commerciale l’Australia ne esce senza dubbio biasimabile (Parigi ha ritirato “per consultazioni” il proprio Ambasciatore a Camberra, così come quello a Washington), in punto di valenza strategica del patto le cose cambiano.
Il partner americano garantisce infatti una tecnologia rodata, leader mondiale per quanto concerne la navigazione subacqua: ma, soprattutto, assicura una sorta di santa alleanza verso il comune nemico cinese, additato invece con toni più miti e accomodanti dagli alleati francesi ed europei in generale (vedasi le dichiarazioni corrive del G7 di Giugno in Cornovaglia).
D’altra parte, grazie ad Aukus Washington irrobustisce i legami con un partner fisicamente e geograficamente presente nella zona del contendere, determinando un effetto di forte deterrenza verso Pechino (all’avanguardia, ormai, in molteplici settori tecnologici, ma non ancora nell’industria dei sottomarini). Queste esigenze di localizzazione spiegherebbero altresì l’esclusione dal patto del Canada, che pure assieme a Stati Uniti, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda fa parte dell’alleanza “Five Eyes”, per lo sviluppo di tecnologie cyber, quantistiche e di servizi di intelligence che arginino la longa manus – o meglio, l’acuto occhio – del Dragone. Tra l’altro, l’assenza di Ottawa dal tavolo delle trattative ha procurato non poche difficoltà a Justin Trudeau, proprio in queste ore impegnato in un difficile testa a testa per il rinnovo della premiership.
Altre considerazioni riguardano l’impatto di Aukus sullo scenario geopolitico della regione indo-pacifica nel suo complesso. Scontata la reazione della Cina, la quale, oltre ad aver già presentato domanda di adesione al “Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership Agreement” (l’accordo di libero scambio commerciale che riunisce 11 Paesi dell’area, Paesi su cui ovviamente Pechino intende estendere la propria influenza) darà verosimilmente anche corso a un celere booster della propria flotta di sommergibili. Oltre al Dragone, è però legittimo supporre che anche altre Nazioni (India e Giappone in primis, ma prospetticamente anche Corea del Sud e Filippine) vorranno in seguito rinnovare e ammodernare il proprio armamentario bellico. Con quali riposizionamenti e assestamenti nella regione non è dato saperlo.
Questo fatto apre un nuovo capitolo, quello del combustibile atomico che spingerà i sottomarini. Gli Stati Uniti impiegano per i loro mezzi Uranio altamente arricchito, a differenza dei Francesi e anche dei Cinesi (questi ultimi, con 6 sottomarini nucleari operanti, però, a Uranio debolmente arricchito). C’è da credere che l’empowerment della tecnologia atomica darà l’abbrivio a una nuova esagitata corsa al consumo di Uranio Altamente Arricchito, che l’International Panel on Fissile Materials quantifica già oggi in 4 tonnellate all’anno. Il timore è che Teheran possa approfittare di questa enfasi collettiva per proseguire nei suoi tentativi di arricchimento dell’Uranio, ben oltre la soglia del 90%. Anche in questo caso, con foschi e imprevedibili effetti sul Medio-Oriente: divenuto, dopo lo sbrigativo e raffazzonato ritiro dall’Afghanistan, sempre più una polveriera.
L’ultimo aspetto riguarda noi, l’Europa. Quale bouleversement determinerà lo screzio fra Parigi (che pure della costruzione europea, e segnatamente di quella militare, è azionista di maggioranza) e l’altra sponda dell’Atlantico? In un contesto ove la Germania, altro grande pilastro tecnologico-militare del Vecchio Continente, con il suo sostanziale silenzio dimostra di essere strategicamente (e in maniera di certo non disinteressata) più vicina all’alleato oltre oceano. Nondimeno c’è da supporre che Parigi alzerà la voce, e la farà sentire – e pesare – nell’ambito dei progetti in fieri per la Difesa comune europea: primo fra tutti, SCAF (Sistème de Combat Aérien du Futur), il programma europeo per lo sviluppo di aerei caccia di sesta generazione.
E Londra? La Francia ha minimizzato il peso specifico del Regno Unito nell’ambito dell’operazione Aukus, evitando persino di ritirare il proprio Ambasciatore a Londra. La decisione, derubricata con la presa d’atto del facile comportamento opportunista di Downing Street, nasconde, o comunque cerca di mascherare e minimizzare, una scottatura ben più profonda: la sostanziale vittoria diplomatica dello U.K. post Brexit. In grado di ritagliarsi un ruolo da protagonista sullo scacchiere internazionale, anche senza Europa. Esclusione che invece non vale all’incontrario, dato che qualsivoglia progetto di vera Difesa comune (e comunitaria) risulta impensabile se priva di una sostanziale partecipazione del Regno Unito.
“Last but not least”, come si direbbe nell’anglosfera, le tempistiche di certo non casuali di Aukus vogliono rimarcare l’elemento, sostanziale, di presenza e presidio degli Stati Uniti. Ritiratisi dall’Afghanistan e dal pantano di una guerra durata vent’anni, per concentrarsi sull’obiettivo strategico del presente e del futuro: il contenimento della Cina.
Come a dire, il secolo americano è tutt’altro che finito e prosegue sulle onde di un altro oceano. Sì... ma quando comincerà, parallelamente, anche quello dell’Europa?