Esteri
Brexit, Tories spaccati sul piano Johnson. E ora anche gli Usa alzano la voce
I negoziati della Brexit sono entrati in una fase più tesa, dopo che il governo di Boris Johnson ha proposto una nuova legislazione interna
I negoziati della Brexit sono entrati in una fase, più tesa, dopo che il governo di Boris Johnson ha proposto una nuova legislazione interna.
La legge interna e la violazione degli accordi
Questo disegno di legge, l’“Internal Market Bill”, per stessa ammissione di membri del governo è un progetto che violerebbe il Withdrawal Agreement, l’accordo internazionale firmato tra UE e Regno Unito nell’ottobre del 2019. In esso, tra le altre cose, veniva tutelata la necessità di non porre un confine fisico tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, fissando i controlli sulle merci che attraversano il mare irlandese sulle coste inglesi/scozzesi/gallesi o in quelle nordirlandesi. In tal modo si sarebbe garantita la sicurezza e la pace nella regione dell’Ulster, così come l’integrità del mercato unico europeo.
E’ proprio questo il punto principale che verrebbe messo in discussione dalla possibile nuova legge britannica, la quale prevede la possibilità per Londra di prendere decisioni unilaterali sui controlli, ma di fatto ignorando le possibili conseguenze che potrebbe avere sul Good Friday Agreement che portò la pace in Irlanda del Nord. Il confine fisico tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda diventerà necessario se l’UE non avrà la certezza che tramite l’Irlanda non passi nel mercato unico europeo merce non controllata preventivamente. Il problema è che i possibili risvolti sociali di un confine ‘duro’ all’interno dell’isola irlandese potrebbero mettere in discussione la pace conquistata negli ultimi decenni nell’Ulster.
Le reazioni interne ed esterne e l’obiettivo di Johnson
All’interno dello stesso partito conservatore si sono alzate diverse voci “ribelli” che si sono opposte all’indirizzo dato dal governo, sostenendo di voler difendere la credibilità britannica in sede internazionale. Nonostante questa “rivolta interna” il disegno di legge ha superato la prima votazione nel Parlamento britannico con 340 voti favorevoli contro 263 contrari, segno che Boris Johnson ha in qualche modo contenuto il dissenso interno. Il premier sembra infatti aver trovato un accordo con il gruppo di deputati Tories dissidenti, approvando la loro richiesta di lasciare l’ultima parola al Parlamento sull’eventuale violazione britannica dell’accordo internazionale.
La mossa del governo Johnson non è invece piaciuta dalle parti di Bruxelles, dove i diversi leader hanno espresso tutto il loro disappunto. La presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen si è detta molto preoccupata da questo dietrofront, che mina la fiducia reciproca tra le parti, così come il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Nel frattempo i negoziati per la Brexit stanno continuando ma il clima tra le delegazioni si è fatto più teso. Boris Johnson ha dato una sorta di ultimatum all’UE (metà ottobre) entro il quale una buona riuscita delle trattative dovrà andare in porto, anche se ad oggi quest’ipotesi pare essersi allontanata. Nonostante il tentativo di forzare la mano con l’UE, la volontà del premier britannico rimane quella di trovare un accordo, il che gli consentirebbe di avere un consenso maggiore all’interno del partito e del paese, già messo a dura prova dalla gestione della situazione sanitaria ed economica del Covid.
Anche i rappresentanti dei governi di Irlanda del Nord, Galles e Scozia hanno mostrato tutti i loro risentimenti sulla scelta di Johnson. Su tutti Nicola Sturgeon, la premier scozzese e leader dello Scottish National Party (SNP), ha parlato di “abominio”. L’altro punto fondamentale della legge proposta da Johnson infatti riguarda la gestione degli aiuti di Stato nelle diverse “province” britanniche, Ulster in primis ma anche Scozia e Galles.
Gli Stati Uniti alzano la voce
Non sono mancate le reazioni neanche oltreoceano (soprattutto dal partito democratico) da dove si sono fatti sentire sia Joe Biden, candidato alle presidenziali di novembre negli Stati Uniti, sia Nancy Pelosi, la presidente del Congresso americano. Entrambi hanno avvertito Londra: se l’Accordo del Venerdì Santo nordirlandese dovesse essere minacciato, gli Stati Uniti si opporrebbero all’accordo di libero scambio con il Regno Unito, in ballo da diverso tempo.
Washington d’altronde è da sempre attenta alla situazione nordirlandese anche perchè la diaspora irlandese nel territorio statunitense negli anni ha raggiunto numeri altissimi. Gli stessi Stati Uniti furono fondamentali per la firma del trattato di pace in Irlanda del Nord nel 1998 e difenderlo oggi, mettendo sul piatto il possibile accordo con il Regno Unito, è un segnale importante. La Gran Bretagna, alle prese con il progetto di “Global Britain” che sta stentando a decollare, non può rischiare di perdere l’appoggio commerciale ed economico del principale alleato.
La volontà tutta inglese di uscire dall’Unione Europea, derivata dal desiderio profondo di mantenere dapprima saldo il controllo della madrepatria e successivamente cercare di ricrearsi un ruolo globale (sulle orme di quello che fu l’impero britannico crollato lo scorso secolo) non sembra per adesso dare i frutti sperati. Mai come ora per Johnson gli esiti delle trattative della Brexit diventano essenziali per delineare il proprio futuro e quello del Regno Unito.