Esteri

Gaza, l'ondata di proteste universitarie sbarca in Italia. Il caso Bologna

di M. Alessandra Filippi

L'imprevista e incontenibile indignazione, messa in moto dall’élite studentesca dell’Ivy League, ora coinvolge anche il nostro Paese

Proteste pro Gaza, si muovono anche le università italiane. L'Alma Mater Studiorum di Bologna tra le 150 coinvolte 

Mentre a Rafah si vivono ore di tragica incertezza e nella notte i bombardamenti sono proseguiti nella parte est della città causando almeno 5 morti e diversi feriti, non si placa l’ondata studentesca di protesta. Sono ormai più di 150 le università che in tutto il mondo si sono unite a quelle americane e dal 5 maggio nel lungo elenco è comparso anche il nome di un ateneo italiano: è l’Alma Mater Studiorum di Bologna, fondata quasi mille anni fa, nel 1088. Il movimento, con i suoi accampamenti recidivi, sta destabilizzando i vertici delle istituzioni universitarie e quelle politiche i quali stanno cercando in tutti i modi di evitare che la protesta si diffonda e dilaghi nella società. Un timore confermato dalle ripetute e sempre più violente brutali campagne repressive di arresti e sgomberi che gli accampamenti universitari stanno subendo, soprattutto negli Stati Uniti, dove ormai sono migliaia gli studenti arrestati e espulsi e centinaia i docenti licenziati. Animata da una forza e una passione contagiosi, l’onda studentesca a qualunque latitudine, Italia compresa, chiede prima di tutto stop al genocidio di Gaza.

GUARDA IL VIDEO DELLE PROTESTE 

Leggi anche: Israele bombarda Rafah, attacchi aerei: strage di civili. La tregua è lontana

Governata con metodo e pacifica determinazione, partita dai campus della Ivy League, nelle cui aule si sono formate intere generazioni di classi dirigenti e leader del domani, è sgorgata inattesa con la forza dirompente di una eruzione vulcanica. Giovani che sentono di essere dalla parte giusta della storia e che sono pronti a giocarsi tutto, incluso il loro corso di studi, per cambiare il modello definito “coloniale e capitalista”. Ragazzi e ragazze che in poche settimane hanno messo in piedi una rete transnazionale che ha valicato ogni confine geografico, culturale, linguistico e politico facendo di milioni di voci una sola: quella dell’avanguardia e del cambiamento. A partire della libertà di parola e pensiero, che negli Stati Uniti, come in Europa, ha registrato involuzioni pericolose. Lo scorso 3 maggio, per esempio, è stato approvato un aggiornamento dell’Antisemitism Awareness Act, con 320 voti favorevoli e 91 contrari, che stabilisce che la definizione di antisemitismo sia quella fissata dall’International Holocaust Remembrance Alliance.

Una formula controversa che non solo equipara “antisionismo” a “antisemitismo”, ma soprattutto trasforma in “antisemita” qualunque manifestazione di dissenso nei confronti dello Stato di Israele. Un disegno di legge del tutto simile a quello già approvato in silenzio dal Parlamento Europeo il 1º giugno 2017, e che confligge, e di fatto inficia, il sacro e intoccabile Primo emendamento della Costituzione Americana, il quale prevede, oltre alla separazione fra Stato e religione, “la libertà di riunione, di manifestazione del pensiero e di stampa”. Provvedimento che consentirebbe di “ricattare” le università che non puniscono gli studenti in protesta per la Palestina – «antisemiti filoterroristi che stanno conquistando le facoltà», per usare le parole del deputato repubblicano Tom Emmer – e di togliere loro ogni sovvenzione. E proprio le sovvenzioni e gli investimenti sono le parole chiave al centro delle richieste avanzate dagli studenti in tutto il mondo, compresi quelli di Bologna che domenica hanno dato vita all’ “Acampada per la Palestina”. Il messaggio è chiaro: “Rifiutiamo che il sapere venga usato per generare o rafforzare l’oppressione; o per creare nuovi strumenti bellici per portare avanti guerre o, come in questo caso, il genocidio a Gaza”.

Consapevoli di vivere una “fase storica delle mobilitazioni studentesche”, sono animati dalla voglia di “integrare ciò che sta accadendo altrove con tutto quello che è già stato fatto in Italia in questi mesi sette mesi”. Una scelta dettata anche dal “bisogno di trovare, insieme, una ricerca di senso collettiva”, anche rispetto alla propria condizione. “È inquietante e paradossale vedere tutta questa apparente ‘normalità’, come se nulla stesse accadendo. Per noi è intollerabile quello che sta accadendo a Gaza ed è per questo da mesi ci siamo mobilitati”. A livello globale il movimento è concentrato su una causa precisa, quella di Gaza ma, come fa notare Isabella, una studentessa del gruppo Giovani Palestinesi Bologna, “allo stesso tempo è vettore di tante altre istanze”. Fin da novembre i comitati studenteschi avevano chiesto che l’Università di Bologna chiedesse ufficialmente il cessate il fuoco. Davanti al netto rifiuto gli studenti hanno intensificato la mobilitazione. “Nel mese di marzo, dopo aver interrotto la passerella dell’inaugurazione dell’Anno Accademico, abbiamo occupato il Rettorato per una settimana allo scopo di ottenere un incontro pubblico con il Rettore”.

Incontro che hanno avuto lo scorso 24 aprile, e nel corso del quale hanno sottoposto nuovamente il frutto delle loro ricerche “sulle società che producono morte e alle quali l’università di Bologna è collegata”. Ricerche che mettono in luce lati sconosciuti, e per lo più ignorati, della fitta rete di rapporti che legano le università a società come l’ENI o la Lonardo. Ettore, studente di Filosofia e portavoce dei Giovani Palestinesi Bologna, spiega che “Università israeliane come l’Israel Institute of Technology di Haifa o la Ben Gurion del Neghev, sono la spina dorsale dell’industria bellica israeliana, e sono strutturalmente complici del genocidio e dell’apartheid subito dal popolo palestinese”. E aggiunge “Senza università come quelle non esisterebbero le Elbit System, società internazionale di alta tecnologia impegnata in una vasta gamma di programmi di difesa, sicurezza nazionale e commerciale, o la Israel Aerospace Industries Ltd., il principale produttore aerospaziale e aeronautico israeliano che progetta, sviluppa, produce aerei civili, droni, caccia, missili e sistemi spaziali”. Una selva oscura fatta di accordi, finanziamenti, scambi o utilizzo non cristallino delle ricerche affidate agli studenti per scopi scientifici e militari.

GUARDA IL VIDEO DELL'INTERVISTA A ETTORE, STUDENTE DI FILOSOFIA 

Fra le richieste avanzate dai ragazzi di Bologna, oltre alla risoluzione immediata di tutti gli accordi universitari stipulati con aziende israeliane, e non, e il boicottaggio totale del sistema accademico israeliano, comuni a tutto il movimento, c’è quella specifica del recesso dall’accordo firmato quest’anno dal Governo italiano con lo Stato ebraico. Accordo volto a finanziare progetti di ricerca scientifica che, secondo gli studenti, potrebbero riguardare tecnologie utilizzabili per scopi militari. “Dopo molte mobilitazioni e molte occupazioni abbiamo ottenuto già grandi successi– dichiarano orgogliosi gli studenti bolognesi – Una su tutte sono le dimissioni del Rettore dell’Università di Napoli dalla Fondazione Med-Or, creata dalla Leonardo. Un primo passo verso quel progressivo allontanamento delle istituzioni universitarie dall'industria bellica”, al primo posto fra quelle in agenda. “Noi chiediamo che il sapere prodotto dalle Università a scopi bellici venga bandito, per sempre”.

Anche loro chiedono un cessate il fuoco ma che contempli “liberazione del popolo palestinese”, da Gaza alla Cisgiordania. “Alla vigilia dell’attacco di Hamas la situazione lì non era idilliaca: Gaza era una prigione a cielo aperto. In Cisgiordania i palestinesi venivano uccisi giornalmente. E la cosa è continuata in questi mesi, con una violenza che non si era mai vista prima”. A Gaza “è stato cancellato l’intero sistema scolastico: sono state distrutte più di 250 scuole, rase al suolo tutte le università. Anche per questo riteniamo che le nostre debbano prendere una posizione chiara, tale da determinare cambiamenti significativi anche in quelle assunte fino ad oggi dal governo italiano”. Nei giorni a venire sono previsti fitti calendari di interventi di studiosi, attivisti e docenti - oltre che alla proiezione di film - che parleranno della Palestina, della sua storia, del suo passato ma anche del suo futuro e per mercoledì 8 maggio è stata annunciata la partecipazione di Patrick Zaki.

Le loro fonti si ispirazione sono le lotte contro l’apartheid in Sud Africa o la Casbah di Algeri, teatro della lotta anticolonialista degli algerini contro i francesi. Il sentimento di chi fino ad oggi è intervenuto potrebbe essere riassunto così: “La libertà del popolo palestinese è la libertà di tutti”. Un pensiero ispirato alla celebre frase di Nelson Mandela il quale disse che i Sudafricani non si sarebbero potuti sentire liberi finché anche i palestinesi non lo fossero stati. A Ettore ho chiesto se aveva voglia di replicare alle accuse di antisemitismo mosse agli studenti da più parti.

Lui ha risposto così: “Noi rigettiamo al mittente, anche un po’ imbarazzati per loro, l’accusa di essere antisemiti. Noi siamo giovani studenti italiani e palestinesi cresciuti nelle scuole italiane. Noi sappiamo bene cosa è il 27 gennaio. Noi crediamo però che per la convivenza pacifica tra ebrei e palestinesi debba cessare il regime di apartheid. Un regime come quello israeliano, che nel 2018 ha introdotto nella sua Costituzione, attraverso le Basic Laws il principio che il diritto di autodeterminazione nello stato di Israele è prerogativa esclusiva del popolo ebraico. La terra di Palestina da millenni è multietnica. L’obiettivo di Israele è che ci sia uno stato solo per gli ebrei. Noi a questo chiaramente ci opponiamo. Ma questo non vuol dire essere antisemiti. Vuol dire essere antisionisti. E credere che il futuro della Palestina debba essere all’insegna della convivenza civile fra i popoli. Se esiterà un’entità fondata sul primato di una razza, di una religione, di un gruppo etnico, non ci potrà essere pace”.