Esteri

Guerra Israele, Gaza non può dimenticare il massacro da sola: serve l'aiuto del mondo intero

Nessun paese può affrontare una simile devastazione da solo. Servirà un immenso sforzo internazionale

di M. Alessandra Filippi

Gaza, quel monito diventato realtà

Sono 1.600 le famiglie palestinesi cancellate dalla faccia della terra e dai registri anagrafici della Striscia. Il dato è emerso da poco, dal Ministero della salute di Gaza. A dire il vero, anche gli uffici anagrafici non esistono più. La loro distruzione sistematica non è stato solo un colpo alla funzionalità di un territorio: è una ferita alla memoria collettiva, alla capacità di una popolazione di ricordare chi è e da dove viene. Quando un anno fa scrivevo quanto fosse pericoloso cancellare la memoria di un popolo, molti ignoravano il problema (https://www.affaritaliani.it/esteri/gaza-cancellare-la-memoria-di-un-popolo-equivale-ad-annientarlo-897832.html). Oggi, quel monito sembra diventato realtà.

Leggi anche: Tregua a Gaza, nella notte arriva l'ufficialità. Ma si spacca il governo israeliano

L’entità e sistematicità di questa distruzione – che ha colpito persino biblioteche, musei e aree archeologiche - suggeriscono un disegno ben più ampio della creazione di "zone di sicurezza", con il cui pretesto è stata giustificata ogni devastazione. Gaza è un luogo spogliato delle sue radici. Senza registri, archivi o mappe, i palestinesi non perdono solo case e terre, ma la possibilità stessa di dimostrare un legame con il passato.

Per le famiglie sopravvissute, questo significa non avere prove di proprietà, eredità, identità. Le radici di un popolo non sono fatte solo di terra, ma anche di ciò che si tramanda: cultura, istruzione, tradizioni. A Gaza tutto questo è stato ridotto in polvere. Questa cancellazione non ha precedenti. Mai prima d’ora ci si era trovati di fronte a una devastazione così capillare e mirata. Non si tratta solo di ricostruire mura, ma di curare ferite invisibili che attraversano generazioni. L’inferno di Gaza sfugge alla nostra comprensione. Solo chi entrerà nella Striscia, con l’entrata in vigore del cessate il fuoco, potrà confrontarsi con l’apocalisse che per 15 mesi i giornalisti palestinesi hanno cercato di documentare, spesso sacrificando la loro vita. Eppure, mentre testimoniavano il massacro, molti colleghi occidentali mettevano in dubbio i loro racconti.

La narrativa dominante preferiva ricordare che i dati provenivano dal Ministero della Salute controllato da Hamas piuttosto che denunciare l’evidente sterminio in corso, il divieto imposto alla stampa internazionale di accedere nella Striscia, o il silenzio complice della comunità occidentale. Per riparare il gigantesco e indicibile trauma subito dai sopravvissuti nella Striscia non basteranno tutti gli aiuti umanitari che si potranno introdurre. Come ha ricordato Lubna Musa, amministratrice delegata del Palestine Children’s Relief Fund (PCRF), basata a Ramallah, «Nessuna organizzazione e nessun paese può affrontare una simile devastazione da solo, servirà un immenso sforzo internazionale. Serve il mondo intero». Eppure, da quelle macerie, emerge la straordinaria resilienza della società civile palestinese, che nonostante tutto continua a ricostruire scuole improvvisate, ospedali da campo e perfino biblioteche.

È una lotta per mantenere in vita non solo i corpi, ma la memoria e l’identità di un popolo. Parallelamente, la diaspora palestinese, sparsa in tutto il mondo, si adopera per documentare, preservare e tramandare la storia collettiva che rischia di essere cancellata. Archivi digitali, raccolte orali e iniziative culturali si sono moltiplicate, creando un ponte tra chi resiste sul terreno e chi, lontano, combatte una battaglia per la verità e il diritto all’esistenza. Questa resilienza rappresenta un atto di sfida al tentativo sistematico di annientamento culturale e materiale. E rende ancora più evidente il fallimento della comunità internazionale di fronte a una tragedia così profonda.

Quel mondo che per 15 mesi non è stato in grado di pretendere e ottenere che l’accordo, lo stesso proposto da Biden otto mesi fa, venisse perfezionato allora, risparmiando altri 20.000 morti e devastazioni. Le trattative di Doha evidenziano i giochi di potere dietro ogni negoziato. Marwan Bishara di Al Jazeera ha sottolineato le responsabilità dell’amministrazione Biden, definendo "oltre l’accettabile" il tentativo di presentare come successo diplomatico una lunga serie di errori. La pressione di Trump ha certamente rappresentato un punto di svolta. Il presidente eletto ha mostrato un approccio più aggressivo nei confronti di Netanyahu, minacciando "l’inferno" in caso di mancato rispetto degli accordi.

Ed è chiaro che l’inferno non era per una parte sola. Tuttavia, questa strategia solleva interrogativi: è davvero una via verso la pace, o il preludio a nuove alleanze che consolideranno ulteriori divisioni e conflitti? Il Qatar, l’Egitto e gli Stati Uniti si contendono il ruolo di mediatori in questo contesto – quello in Siria il Qatar lo condivide con la Turchia – ma le loro motivazioni raramente coincidono con un impegno autentico per la pace. Dietro le dichiarazioni ufficiali si celano interessi economici e strategie di potere. Nel frattempo, i bombardamenti su Gaza continuano: dall’annuncio della tregua, raid israeliani, fra i più intensi mai registrati da mesi, secondo Al Jazeera hanno massacrato almeno altri 86 civili palestinesi, fra i quali 21 bambini e 25 donne. Al netto di tutto, Gaza resta intrappolata nell’inferno che si ripete da 468 giorni.

Nella notte, a Doha, Israele e Hamas, con Stati Uniti e Qatar, hanno firmato l'intesa per il cessate il fuoco che tuttavia, complice lo Shabbat e la possibilità di presentare ricorso contro l'accordo da parte dei cittadini israeliani, potrebbe slittare a lunedì 20 gennaio, giorno dell’insediamento di Donald Trump. Eventualità che pare abbia suscitato ben più di un malumore nel presidente uscente Joe Biden Sul fronte interno, Netanyahu è in piena crisi politica e deve misurarsi con le spaccature aperte dai due partiti di estrema destra del suo governo. Secondo i media israeliani, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, come preannunciato ieri, si è dimesso dal governo in segno di aperto contrasto, tuttavia non voterà per la sua caduta. Anche il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich si oppone, ma senza dimettersi. Una mano tesa a Netanyahu arriva dall’opposizione.

Yair Lapid gli ha garantito una "rete di sicurezza" per far passare l’accordo qualora, in corso d’opera, dovessero sopraggiungere problemi. “Questo è più importante di qualsiasi divisione che abbiamo mai avuto”. Certo è che, come ricorda il Times of Israel, ci sono due accordi sul tavolo questa settimana: l'accordo di Netanyahu con Hamas e quello di Netanyahu con la nuova amministrazione Trump. «Sappiamo molto del primo e molto poco del secondo». La pace sembra essere sempre più un’arma retorica, mentre il vero gioco si gioca altrove, tra alleanze nascoste e strategie di potere. La diplomazia del Medio Oriente è notoriamente sottile, fatta di messaggi codificati e strategie indirette: quella della "parola" raramente coincide con quella della "realtà". Ma Gaza non può aspettare che le logiche geopolitiche si risolvano. La comunità internazionale deve agire, ora, non solo per ricostruire mura, ma per restituire un futuro a un popolo privato della sua stessa storia.

LEGGI TUTTE LE NOTIZIE DI ESTERI