Esteri
Genocidio a Gaza, uno scempio taciuto e manipolato. Il paradosso del sostegno cieco della Germania a Israele
Israele replica: “Il genocidio è quello del 7 ottobre”. Quando a mancare sono la verità e i fatti, il linguaggio si trasforma in un'arma, capace di generare caos cognitivo
Papa Francesco: indagare sul genocidio a Gaza
Il mondo sta assistendo a una tragedia di proporzioni epiche: non solo un massacro umano, ma uno scempio del diritto, della libertà di stampa e della capacità collettiva di discernere la realtà dalla manipolazione. Israele, con il pieno sostegno degli Stati Uniti, non solo bombarda e massacra, ma ridefinisce i confini della verità e della morale attraverso un monopolio del linguaggio e una censura sistematica. Questo sodalizio tra il “fratello grande” americano e lo stato ebraico non è solo una partnership politica: è una dinamica tossica che manipola i media e crea una narrazione che assolve i carnefici e demonizza le vittime. A Gaza, ciò che si sta perpetrando va oltre la pulizia etnica: è uno sterminio che potrebbe rientrare nella definizione giuridica di genocidio.
Tra i casi più emblematici e grotteschi di manipolazione spicca quello della Germania, che sembra aver tramutato il suo passato di colpevolezza storica in un sostegno cieco e incondizionato alla politica israeliana, fino a diventare una strenua paladina del genocidio palestinese. È un paradosso inquietante: la nazione che ha perseguitato gli ebrei fino ad assassinare milioni di esseri umani nei campi di sterminio è oggi tra le più accese sostenitrici di uno Stato, Israele, i cui atti verso i palestinesi riecheggiano pratiche di annientamento. Il governo tedesco, con provvedimenti dal carattere marcatamente autoritario, reprime da mesi ogni dissenso verso Israele.
La ministra degli Esteri Annalena Baerbock si è resa protagonista di interventi che, per contenuto e tono, evocano oscure analogie con il passato. La differenza, oggi, è che al posto degli ebrei ci sono i palestinesi, trattati da Israele – e talvolta anche dalla retorica occidentale – come subumani. Baerbock non ha mai affrontato pubblicamente la storia del nonno, Waldemar Baerbock, ingegnere della Wehrmacht e nazista decorato con la Croce al Merito Militare nel 1944, ma questo dettaglio biografico emerso da una ricerca giornalistica (rilanciata da Bild) sembra simbolicamente rappresentare l’inquietante ciclicità di certe ideologie. Lungi dal chiudere i conti col passato, la Germania rischia di trasformare un legittimo senso di colpa in una giustificazione per tacere su crimini contro l’umanità.
E veniamo al casus belli delle ultime ore. Nel suo nuovo libro La speranza non delude mai, Papa Francesco ha osato rompere il silenzio, scrivendo: “Ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se si inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali.” Questa affermazione, pesata parola per parola, arriva dopo mesi di silenzio vaticano. La reazione non si è fatta attendere. L’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede ha dichiarato su X che il 7 ottobre è il “vero genocidio,” accusando il Papa di isolare lo Stato ebraico. Il CAM-Combat Antisemitism Movement, ha criticato duramente il Papa, chiedendo un uso “più cauto” delle parole.
La scrittrice e poetessa Edith Bruck, sopravvissuta ai campi di sterminio, in un’intervista a Repubblica ha contestato il termine stesso, sostenendo che l’unico genocidio è quello della Shoah. “Usare questa parola in altri contesti sminuisce ciò che abbiamo vissuto noi.” Posizioni come queste riflettono un tema più ampio: l'uso del linguaggio come strumento politico per manipolare la narrazione e legittimare o delegittimare eventi storici e attuali. È emblematico osservare come il concetto di genocidio venga gelosamente custodito e politicamente strumentalizzato, impedendone l’applicazione ad altri contesti, anche quando questi rispecchiano perfettamente le condizioni richieste dalla Convenzione ONU del 1948.
Israele e molte delle sue comunità di supporto, attraverso l’accusa di antisemitismo, soffocano ogni critica. Questo monopolio del linguaggio non solo manipola il discorso pubblico, ma crea un pericoloso precedente in cui le atrocità compiute da uno Stato possono essere giustificate o ignorate attraverso la sacralizzazione del proprio passato di vittima. La retorica israeliana insiste nel dipingere i palestinesi come terroristi o subumani, riducendo le loro morti a “danni collaterali”. Parole pericolose, sintomatiche di un’ideologia che cerca di svuotare di significato termini come genocidio, diritti umani, e persino vittime, imponendo un ordine del discorso che protegge il carnefice e silenzia la vittima.
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Silvana Arbia, già cancelliere della Corte Penale Internazionale ed ex procuratrice del Ruanda, in un’intervista rilasciata oggi sula Stampa, plaudendo alla richiesta di papa Bergoglio, ha denunciato il rischio concreto che la legge del più forte prevalga sulla Legge dei popoli e che così facendo si vada incontro alla distruzione della loro difesa. “La deumanizzazione pubblica e l’incitamento alla violenza stanno creando un clima di impunità per crimini gravissimi”. Il linguaggio è un’arma potente. “Le parole che incitano all’odio preparano il terreno per le peggiori atrocità”. Il paragone che fa con il genocidio in Ruanda non è casuale. Oggi come allora, la propaganda gioca un ruolo decisivo nel giustificare massacri e negare dignità umana alle vittime. “Stiamo assistendo a una violazione sistematica e flagrante dei diritti umani”. Le sue parole sono un monito: ogni giorno di inerzia è un fallimento della giustizia, un'aggiunta alla sofferenza delle vittime.
Se la comunità internazionale rimane paralizzata, come può sperare l’umanità di garantire giustizia a Gaza? La Corte Penale Internazionale ha aperto un fascicolo contro Israele per crimini di guerra, ma la strada verso un mandato d’arresto per Netanyahu e Gallant è costellata di ostacoli, e minacce. Non è accettabile che il diritto internazionale venga applicato solo contro i “bulli” del Sud globale, mentre gli Stati occidentali ne restano immuni.
Il ricordo della Shoah è un monito contro l’odio, ma il suo uso strumentale per giustificare politiche oppressive rappresenta una pericolosa distorsione. Come sottolinea Zagrebelsky: “Il rifiuto di Israele di discutere l’ipotesi di genocidio ha senso nel conflitto politico, ma non considera il diverso piano dell’accertamento giuridico dei fatti.” Questa strumentalizzazione mina ogni possibilità di dialogo e perpetua un ciclo di odio, violenza e oppressione.
A Gaza, intanto, l’orrore continua e il bilancio umano è devastante: quasi 44.000 i morti e 104.000 i feriti. Sono circa 18.000 i bambini uccisi dal 7 ottobre, oltre 30.000 quelli mutilati e mezzo milione i traumatizzati che avranno bisogno di supporto psicologico. Questi numeri raccontano di una tragedia che non si può ignorare. Ogni giorno, sotto il pretesto di colpire “obiettivi terroristici”, vengono sterminati civili innocenti. Questo non è solo un conflitto: è un attacco ai diritti fondamentali dell’uomo. È la storia di una “guerra” che il secondo esercito del mondo sta combattendo contro una popolazione di civili inermi. Lo afferma l’Onu, l’OCHA, organizzazioni non governative che ancora operano a Gaza in condizioni di terribili difficoltà, lo testimoniano i giornalisti palestinesi sul campo, molti dei quali assassinati da Israele, lo ripetono da mesi Save the Children e Medici senza frontiere. Lo dicono le immagini e i satelliti.
La propaganda che giustifica questi crimini è una delle più potenti armi di distruzione di massa. Ma è proprio nel linguaggio, nelle parole come genocidio e vittima, che si combatte una delle battaglie più decisive per il futuro dell’umanità. È tempo di rivendicare il diritto a una narrazione onesta, che non sia ostaggio della paura o dei ricatti ideologici. Solo così potremo sperare di restituire dignità a chi l’ha perduta sotto le macerie di Gaza.