Esteri
Giappone, corsa delle aziende al China Exit: richiesto 11 volte il budget
Tokyo vuole combattere l'eccessiva dipendenza da Pechino e l'insicurezza economica generata dall'emergenza coronavirus con la diversificazione della produzione
Il governo giapponese ha ricevuto un’ondata di richieste di finanziamento da parte di aziende nazionali che avevano delocalizzato l’attività per riportare la produzione in patria, da quando l’emergenza coronavirus ha evidenziato i rischi di avere catene di approvvigionamento concentrate in una singola regione, ovvero la Cina.
Il programma di incentivi aveva stanziato 220 miliardi di yen (2,07 miliardi di dollari) nel bilancio fiscale supplementare per il 2020. Nella prima fase, che si è conclusa a giugno, il governo ha approvato 57 progetti per un totale di 57,4 miliardi di yen, ovvero oltre la metà delle 90 domande.
La seconda fase, conclusasi a luglio, ha ottenuto una risposta molto più ampia: 1.670 candidature per un valore di circa 1,76 trilioni di yen, 11 volte l'importo rimanente nel budget. I destinatari saranno scelti nel mese di ottobre dopo una verifica da parte di consulenti esterni.
Sebbene il governo non abbia in programma di stanziare ulteriori fondi per il progetto, alcuni dei candidati alla successione di Shinzo Abe hanno ipotizzato misure per sostenere la diversificazione della catena di approvvigionamento, e altre 30 società sono state autorizzate a ricevere sostegni in base a un programma separato da 23,5 miliardi di yen incentrato sulle delocalizzazioni nel sud-est asiatico.
Le sovvenzioni si applicano alla produzione di beni importanti per la salute pubblica o prodotti principalmente in alcuni paesi specifici, e infatti molti dei progetti già approvati riguardano mascherine e dispositivi medici. I sussidi coprono una quota parziale dei costi, con un tetto massimo di 15 miliardi di yen per progetto.
Ace Japan è tra le aziende che hanno vinto il finanziamento al primo turno, e aprirà la prossima estate una fabbrica nella prefettura di Yamagata per produrre sostanze farmaceutiche aveva finora importato principalmente dalla Cina, ma che, con le restrizioni da Covid-19, è diventato più difficile importare.
Iris Ohyama, una delle prime aziende ad aver ricevuto l'approvazione del progetto, ha utilizzato i fondi per iniziare a produrre mascherine a livello nazionale, diversificando così rispetto alle basi già esistenti a Suzhou e Dalian, in Cina.
Showa Glove prevede di iniziare a produrre guanti per uso sanitario a livello nazionale già nella primavera del 2023, sostituendo circa il 10% delle sue importazioni. L'azienda, di norma, vende guanti che produce all'estero, principalmente in Malesia, ma la pandemia ha interrotto questa fornitura.
Il governo aveva già messo in atto politiche di finanziamento alle aziende in occasione di altri periodi di crisi, come dopo il terremoto e lo tsunami del marzo 2011, quando aveva ricevuto circa 750 domande nel primo turno e ne aveva accettate circa 250, per un totale di circa 200 miliardi di yen. Ma in quel caso l’iniziativa aveva avuto vita breve a causa dell'aumento dei costi di produzione in Giappone, in parte dovuto allo yen forte dell'epoca.
La differenza questa volta è che un ambiente di produzione incerto, in particolare durante la guerra commerciale Usa-Cina, ha reso la sicurezza economica più importante che mai.
"Le politiche protezionistiche erano diffuse anche prima del coronavirus, ma lo shock della pandemia ha esacerbato la tendenza", ha dichiarato Yasuyuki Todo, professore di economia alla Waseda University di Tokyo. Uno dei beneficiari del finanziamento ha riconosciuto che "avevamo deciso di fare la produzione nazionale anche senza la sovvenzione".
I progetti tendono a incentivare le aziende che diversificano le loro reti di produzione, garantendosi così maggiore sicurezza in caso di emergenza, piuttosto che semplicemente chiudere le attività estere e tornare a casa.
In particolare, la Cina ha perso appeal come destinazione manifatturiera poiché i costi del lavoro sono aumentati. In un sondaggio del 2019 sulle società giapponesi condotto dall'Organizzazione per il commercio estero giapponese, ponendo a 100 i costi di produzione in Giappone, quelli in Cina si attestano a 80, in Vietnam poco meno di 74.
Iris Ohyama ha in programma di realizzare mascherine negli Stati Uniti, in Francia e nella Corea del Sud oltre che in Giappone, diversificando la sua produzione finora con base in Cina, raccogliendo così i suggerimenti del professore Todo della Waseda University che avverte: “le aziende dovrebbero affrontare l'eccessiva dipendenza dalla Cina diversificando l’attività e globalizzandosi".
Articolo di Hiroyuki Akiyama pubblicato su Nikkei Asian Review