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Esteri
Guerra Israele, dalla Nakba nulla è cambiato: palestinesi in fuga dalle bombe
anniversario della Nakba

Guerra Israele e Nakba: oggi l'anniversario dei 76 anni di segregazione palestinese

Immaginate di essere a tavola, con i vostri figli, in un giorno qualunque di primavera del 1948. Ignari, state gustando l’ultimo pranzo da liberi cittadini nell’istante in cui altrove vien deciso di spazzare via, senza ritegno e senza remore, i vostri diritti e quelli di un altro milione e mezzo di palestinesi come voi. L’ora in cui il fazzoletto di terra dove vivi, da sempre, dai tempi della Bibbia, viene consegnato al movimento sionista, padre e madre dello Stato di Israele. Tanto la terra senza popolo può ben essere assegnata al popolo senza terra. Nasce Israele, che ieri ha compiuto 76 anni, in un mare di sangue e solitudine.

Poche ore dopo la sua nascita, una coalizione di stati arabi gli dichiara guerra. Gli arabi la perdono, bisogna ammetterlo, per insipienza, cattiva organizzazione, rivalità e gelosie interne, vanagloria e, non ultimo, nel caso della Transgiordania, un accordo che ne strangolava la libertà e volontà d’azione quand’unque avesse l’unico esercito degno insieme all’Egitto. Per i nativi palestinesi ha inizio una tragedia ribattezzata da allora al-Nakba, “la Catastrofe”. E che da allora non conosce né fine né giustizia.

Ma torniamo a quella tavola e a quell’ultimo pranzo. A quella famiglia palestinese borghese, riunita intorno al desco. A quel giorno qualunque, di un mese di primavera dell'anno zero dello Stato di Israele. Stanno mangiando quando, all'improvviso, all'ingresso qualcuno bussa e scalcia con veemenza sulla porta. Un fracasso che fa sobbalzare commensali e servitori. Pallida in volto, Nur rivolge uno sguardo atterrito al marito e un istante dopo ai suoi quattro figli, tutti ancora piccoli.

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Le voci del massacro di Deir Yassin, dove 135 giovanissimi terroristi sionisti, tutti appartenenti alla "Banda Stern", avevano trucidato più di 250 civili inermi, la maggior parte dei quali donne e bambini, e quelle sempre più allarmanti degli assalti alle case, erano arrivati al marito Kamil. Ma lui non aveva voluto credere fossero vere. Non aveva voluto credere nemmeno a sua moglie Nur quando, un mese prima, tornata a casa sconvolta, balbettando gli aveva raccontato quello al quale aveva assistito. L'esodo forzato di quasi tutti gli abitanti dell'antico villaggio di Ain Karem, a 8km da Gerusalemme. Con i suoi occhi aveva visto intere famiglie costrette a portare con sé soltanto pochi oggetti personali e il cibo che avevano nelle loro dispense, caricando tutto sul dorso degli asini. Obbligati a lasciare le case dei loro avi, venivano costretti a dirigersi a est, verso Gerico, e da lì deportati in Transgiordania. Un esodo ottenuto senza sparare un solo colpo.

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Senza preavviso, anche alla loro porta stava bussando, in modo inurbano e spietato, il tempo dell'esodo e dell'abbandono. Della spoliazione e del pianto. Dell'oblio e della persecuzione. Della deportazione e della morte. Nulla di nuovo. Tutto nuovo. Le deportazioni attuate fin dal 1948, anno in cui vennero inaugurate anche le marce della morte, sono fatti non parole. La spoliazione sistematica dei beni, la distruzione di centinaia di villaggi palestinesi attuata senza pietà, lasciandogli solo il tempo di prendere quel che potevano portarsi via a braccia e, chi li aveva, sui dorsi dei muli, sono fatti non parole.

Che sulla maggior parte di quei villaggi palestinesi, carichi di storia e di memoria, rasi al suolo, a suon di ruspe e dinamite, siano state piantate da Israele distese di alberi e creati parchi nazionali sono fatti non parole. Un modo molto “green” per garantire che nessuno dei profughi palestinesi potesse un giorno farsi venire l’idea di tornare e pretendere, come avrebbe avuto diritto di fare, di viverci. Durante la guerra arabo israeliana, dal 1948 al 1949, gli israeliani presero il controllo di 500 villaggi presenti nel territorio che era stato assegnato alla Palestina, soprattutto in Galilea, con il preciso obiettivo di sradicare la presenza araba al confine con Libano e Siria e creare una cintura di sicurezza in grado di garantire i confini.

Bastano due esempi per capire il tenore di quella operazione. Gli antichi villaggi di Lydda e al-Ramla vennero evacuati dalle forze israeliane nel luglio 1948. L'ordine di espulsione della popolazione palestinese venne firmato da Yitzhak Rabin ed emesso alle Forze di Difesa Israeliane (IDF): "Gli abitanti di Lydda devono essere espulsi rapidamente senza tener conto dell'età...". Gli abitanti di Ramla furono portati via in autobus, quelli di Lydda invece furono costretti a camminare per chilometri durante un'ondata di caldo estivo fino al fronte arabo, dove la Legione Araba, l'esercito della Transgiordania guidato dagli inglesi, cercò di fornire riparo e rifornimenti. Circa 500 abitanti deportati da Lydda morirono durante quella che fu solo una delle tante marce della morte organizzate dagli israeliani per deportare i palestinesi lontano dalle loro case, dai loro villaggi, dalla loro terra. Molti ebrei che arrivarono in Israele tra il 1948 e il 1951 si stabilirono nelle case vuote dei rifugiati, sia a causa della carenza di alloggi sia per una questione politica volta a impedire agli ex residenti di reclamarle. Il reporter e scrittore israeliano Ari Shavit ha osservato che questi eventi "furono una fase cruciale della rivoluzione sionista e gettarono le basi per lo Stato ebraico".

Grazie alla "Legge sulla proprietà degli assenti" - uno dei testi fondativi di Israele, che garantisce allo Stato il potere di confiscare e sequestrare ai palestinesi proprietà e beni che essi furono costretti ad abbandonare nel 1948 -, tutte le aree occupate, dopo la guerra, vennero via via incorporate nello Stato di Israele e su di esse vennero fondati numerosi nuovi villaggi ebraici. La "Legge sulla proprietà degli assenti" ha creato una nuova tipologia di cittadini: quella dei "presenti assenti" (nifkadim nohahim), persone "presenti" negli elenchi anagrafici ma considerate "assenti" dalla Legge, secondo la quale quindi non hanno più il diritto di utilizzare e disporre delle loro proprietà. La "Legge sulla proprietà degli assenti" è stata emanata nel marzo 1950 dal governo del primo capo del governo israeliano, David Ben-Gurion. Si stima che quando entrò in vigore circa 30.000-35.000 palestinesi venero classificati come “presenti assenti".

Esiste un documento, conservato dall'Istituto di ricerca Akevot a Tel Aviv, datato 30 giugno 1948, redatto dai servizi di Intelligence sui motivi dell’«emigrazione» dei palestinesi dal territorio controllato dal neonato Stato di Israele. È di eccezionale importanza poiché contraddice la narrazione ufficiale sulle cause dell’esodo dei palestinesi nel 1948. Il documento prova che non furono gli appelli rivolti dai leader arabi a “lasciare la Palestina e ad attendere per rientrarvi la fine dello Stato ebraico” che spinsero centinaia di migliaia di palestinesi ad abbandonare 219 villaggi, quattro città e a cercare riparo in Libano, Siria, Giordania, Cisgiordania e Gaza. Determinanti, nella maggior parte dei casi, furono le intimazioni e gli attacchi armati ai civili lanciati dalle forze ebraiche, regolari e irregolari, a scatenare nei palestinesi un panico tale, da farli scappare in preda al panico.

E ormai provato che l’impatto delle azioni militari ebraiche sulla migrazione è stato decisivo: il 70% degli abitanti ha lasciato le proprie comunità ed è emigrato in conseguenza di queste azioni». Una tattica molto ben collaudata e attuata all’ennesima potenza in questi quasi otto mesi di distruzione sterminio attuati a Gaza e in misura diversa a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Nel documento conservato nell’archivio Akevot, viene precisato inoltre il numero di abitanti in ogni villaggio e città e poi elencate le ragioni dello spopolamento. Ad esempio: «Ein Zaytoun, distruzione del villaggio da parte nostra; Qabbaa, nostro attacco contro di loro». E precisa anche la direzione dell’esodo. Ne esce fuori un quadro che accredita ampiamente la tesi della pulizia etnica della Palestina esposta da Ilan Pappè e avvalora gli studi e le ricerche condotte negli ultimi 30-40 anni da altri «nuovi storici» israeliani come Benny Morris, Hillel Cohen e Avi Shlaim.

La regista israeliana Hadar Morag ricorda che "Quando mia nonna arrivò qui, dopo l’Olocausto, la Jewish Agency le promise una casa. Non aveva niente, tutta la sua famiglia era stata sterminata. È rimasta in attesa per lungo tempo in una tenda, in una situazione estremamente precaria. La portarono quindi ad Ajami, a Jaffa, in una stupenda casa sulla spiaggia. Vide che sul tavolo c’erano ancora i piatti degli arabi che ci abitavano e che erano stati cacciati via. Allora lei tornò all’agenzia e disse: riportatemi nella tenda, non farò mai a qualcun altro ciò che è stato fatto a me”.

Storie come quelle narrate da Morag sono assai sporadiche in Israele. A pensarla come lei è una minoranza esigua. E altrettanto pochi sono stati gli immigrati ebrei ad aver fatto una scelta come quella di sua nonna. Ma esistono e rappresentano quella luce, quella speranza alla quale bisogna aggrapparsi con le unghie e con i denti. E sulla quale si può e si deve ricominciare a tessere il dialogo lì dove è stato strappato e lacerato, sette mesi fa. Anzi, 76 anni fa.

Una storia come quella di Morag mi offre l’ispirazione e il coraggio di formulare una domanda altrettanto imperativa a quella con la quale iniziano quasi tutte le interviste e le conversazioni con coloro che, come me, da sette mesi sfidano la propaganda e denunciano il genocidio in corso a Gaza: “Ma tu condanni il 7 ottobre?”. A quella domanda oggi io rispondo con un'altra domanda, così come mi ha insegnato a fare un rabbino al quale devo molte delle miei conoscenze del mondo ebraico: “Come siete diventati ciò che avversavate?”.

 

 

 






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