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Esteri
Hamas, Israele si dimostra miope: solo tattica e niente visione

Proteste per morte leader Hamas Ismail Haniyeh

La vergogna di Israele e dell’Occidente: i 300 giorni di carneficina a Gaza.

Gli omicidi extragiudiziali di Ismail Haniyeh a Teheran e Fuad Shukr e Milad Bedi a Beirut, eseguiti a distanza di poche ore l’uno dall’altro, come molti commentatori hanno scritto in queste ore, è vero che dimostrano che l'intelligence e l'esercito israeliani hanno capacità tattiche e operative notevoli. È vero che infuocano il Medio Oriente e privano i negoziati di un importante elemento, quale era Haniyeh. Così come è vero che il messaggio che lo stato ebraico ha voluto mandare al suo storico nemico, l’Iran, è “noi possiamo far fuori voi e i vostri ospiti quando e dove vogliamo”. È anche vero, tuttavia, che la neurochirurgica precisione usata da Israele nel colpire i leader di Hamas e Hezbollah, dimostra che la campagna di sterminio portata avanti a Gaza dal 7 ottobre, oggi arrivata al suo 300 giorno, non solo si poteva e doveva evitare ma, come ha scritto ieri nella sua analisi Andrea Muratore, a questo punto diventa ingiustificabile.

Usando logica e buon senso, appurato che gli israeliani sono imbattibili nell’assassinare qualcuno con un missile o un mini-drone teleguidato a migliaia di chilometri di distanza, il fatto che per “estirpare Hamas” abbiano raso al suolo Gaza e sterminato quasi il 10% della sua popolazione fa sorgere ben più di un dubbio circa il fatto che la carneficina in corso sia intenzionale, quando non addirittura premeditata.

Anche a Gaza, da trecento giorni, tanti sono quelli trascorsi da quando ha avuto inizio la guerra nella Striscia, Israele pianifica ed esegue i suoi attacchi avvalendosi dell’intelligenza artificiale, dettaglio emerso solo dopo l’assassinio dei 7 cooperanti della WCK. Stando a quanto è rivelato nell’inchiesta che ha squarciato il velo sul modus operandi dell’esercito israeliano, a Gaza farebbe tutto lei e all’uomo resterebbe solo il compito di premere un pulsante e dare l’ok, senza nemmeno verificare.

Se così stanno le cose, a maggior ragione viene da chiedersi: perché l’IDF, con una tecnologia così sofisticata, invece di colpire chirurgicamente gli obiettivi, ha optato per radere al suolo la Striscia, sterminando 40.000 civili, metà dei quali bambini, e ferendone quasi 100.000, a una velocità inversamente proporzionale allo stillicidio programmato e analogico con il quale tortura, defrauda, deruba e uccide i palestinesi della Cisgiordania? Da mesi non è più un segreto che per raccogliere informazioni sui palestinesi a Gaza l’esercito ebraico sta utilizzando il riconoscimento facciale basato sulla tecnologia di Corsight, società privata israeliana. Un sistema che, secondo quanto riportato mesi fa nell’inchiesta del New York Times, permette di mappare i volti ai posti di blocco lungo le strade di Gaza.

Quella che Israele sta testando a Gaza in maniera massiccia è una tecnologia repressiva. L’intero sistema “È gestito dall’unità di intelligence militare israeliana, inclusa la divisione di cyber-intelligence Unit 8200”. La stessa dalla quale provengono i ‘fantastici quattro’ co-fondatori di Wiz, startup israeliana specializzata in cybersecurity, fondata nell’anno del COVID, 2020, con sede negli Stati Uniti, che Google è pronta ad acquistare per 23 miliardi di dollari. Dovrebbe allertarci tutti e invece sono in pochi a prestarvi attenzione. Secondo il giornalista d’inchiesta australiano di origini ebraiche Antony Loewenstein, autore di Laboratorio Palestina.

Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo, “Questo tipo di sorveglianza di massa e di aggressione apparirà inevitabilmente in altri stati”. Nel suo libro, pubblicato in Italia lo scorso marzo, Loewenstein descrive nel dettaglio i meccanismi segreti grazie ai quali, da decenni, Israele porta avanti senza intoppi politiche di discriminazione e apartheid nei confronti dei palestinesi. “Il complesso militare-industriale di Israele utilizza i Territori Occupati palestinesi come banco di prova per le armi e le tecnologie di sorveglianza che esporta in tutto il mondo”.

Per oltre cinquant’anni “l’occupazione illegale della Cisgiordania e della Striscia di Gaza ha fornito allo Stato israeliano un’esperienza formidabile nel controllo di una popolazione ‘nemica’, i palestinesi”. Loewenstein è il primo ad aver indagato e descritto come “la Palestina sia diventata il laboratorio perfetto per l’industria israeliana della difesa e della sorveglianza, e come le tattiche israeliane di occupazione siano sempre più il modello per le nazioni che vogliono colpire le minoranze non gradite”. Dalle tecniche di polizia alle munizioni letali, dal software di spionaggio Pegasus ai droni utilizzati dall’Unione Europea per monitorare i migranti nel Mediterraneo, “Israele è oggi un leader mondiale nei dispositivi militari e di intelligence che alimentano i conflitti più violenti del pianeta”.

Nel libro, grazie a documenti inediti, l’autore denuncia anche il sostegno israeliano ad alcuni dei regimi più spietati degli ultimi settant’anni, tra cui il Sudafrica dell’apartheid, il Cile di Pinochet, la Romania di Ceaușescu, l’Indonesia di Suharto e il Ruanda prima e durante il genocidio del 1994. Un libro che pagina dopo pagina mette nero su bianco le responsabilità di Israele nella violazione dei diritti umani nel mondo; e questo non da adesso, ma da quando è nato, da ancora prima che l’intelligenza artificiale vedesse la luce e la sua applicazione nelle guerre.

Per fermare la ferocia omicida di Israele non basta il biasimo, scarso, né tribunali né risoluzioni, inutili. Quel che bisogna fare, adesso, è prendere atto al più presto della deriva di stampo biblico messianico della quale è preda lo Stato ebraico e con lui buona parte delle “democrazie occidentali” che lo appoggiano e trovare una cura, prima che sia troppo tardi per tutti, non solo per i palestinesi. La deriva imboccata dallo Stato ebraico ha stravolto ogni regola del gioco, comprese quelle d’ingaggio che regolano la guerra, e che Israele ignora da sempre, e con rinnovata sfrontatezza dal 7 ottobre; inoltre ha indebolito le fragili sponde del Diritto Internazionale, quest’ultimo costruito con fatica dopo la Seconda Guerra Mondiale: basti pensare alle insistenti richieste delle Nazioni Unite e della società civile che da mesi cadono nel vuoto.

Una simile condotta getta inoltre le basi e le premesse per esportare e replicare il “Laboratorio Palestina” in altri angoli di mondo. In un articolo pubblicato sull’Arab Center Washington DC lo scorso aprile, Susan Akram, della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Boston, e John Quigley, Professore Emerito di Giurisprudenza dell’ Ohio State University, riferendosi alla guerra in corso a Gaza fanno notare che il mondo si trova di fronte a uno “scontro tra un ordine basato su regole e un ordine basato sulla legge, in cui le ‘regole’ sono stabilite da una manciata di individui e stati potenti a scapito del diritto e della pratica internazionale basata sul consenso globale.

Non c’è dubbio che la delicata impalcatura del diritto internazionale costruita negli ultimi secoli, viene smantellata, gradino dopo gradino”. E aggiungono che simili “considerazioni non sono né astratte né limitate al conflitto israelo-palestinese: se il diritto internazionale abbia ancora qualche rilevanza è una questione critica e urgente per il futuro dell’umanità”. E che l’obiezione sollevata dai due giuristi, e condivisa da buona parte degli esperti in Diritto Internazionale, sia quanto mai di attualità non serve Einstein per capirlo.

Lo scorso novembre lo storico israeliano Ilan Pappè, in occasione di una conferenza tenutasi a Ginevra, concludeva così il suo intervento: “La storia insegna che la decolonizzazione non è un processo semplice per il colonizzatore. Perde i suoi privilegi, deve ridare indietro le terre occupate, rinunciare all’idea di uno Stato-nazione mono-etnico. I pacifisti israeliani pensano di svegliarsi un giorno in un paese eguale e democratico. Non sarà così semplice, i processi di decolonizzazione sono dolorosi: la pace inizia quando il colonizzatore accetta di stravolgere le proprie istituzioni, la costituzione, le leggi, la distribuzione delle risorse. Il giorno in cui finirà la colonizzazione della Palestina, alcuni israeliani preferiranno andarsene, altri resteranno in un territorio libero in cui non sono più i carcerieri di nessuno. Prima gli israeliani lo capiranno e meno questo processo sarà sanguinoso. In ogni caso la storia è sempre dalla parte degli oppressi, ogni colonialismo è destinato è finire”.

 






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