Esteri

Trump e la politica estera 2.0: un mix di arroganza imperialista e delirio di onnipotenza 

La Bibbia come contratto notarile e Dio come broker territoriale. Come al tempo delle crociate in Terra Santa, Dio lo vuole... Il commento

di Alessandra M. Filippi

Trump e la politica estera 2.0 dove la fede sembra giustificare ogni azione. L'analisi 

Il tecno medioevo è la nuova normalità: nel pieno della tecnologia del XXI secolo, in un mondo in cui c’è chi vagheggia di atterrare su Marte e affrontiamo la realtà virtuale delle intelligenze artificiali, la politica internazionale sembra prediligere distopici anacronismi. È il caso della politica estera inaugurata nel suo secondo mandato dal neoeletto presidente Donald Trump, un mix di arroganza imperialista e delirio di onnipotenza, in cui la fede sembra giustificare ogni azione.

Nel primo giorno di "regno", ci sono stati dati segnali chiari su come potranno evolvere i rapporti internazionali futuri, specialmente in Medio Oriente. L'inizio di questa nuova era è stato segnato subito dopo la cerimonia di insediamento, quando l’uomo salvato da Dio per rendere di nuovo grande l’America, seduto nello Studio Ovale, ha firmato ordini esecutivi senza precedenti. Non i cento promessi, ma comunque una cifra record.

Molti saranno difficili da attuare, e potrebbero venire contestati, tuttavia nel novero ci sono provvedimenti di stampo politico autoritari, che hanno toccato i diritti civili, l'immigrazione e la politica climatica; la grazia per i 1.500 rivoltosi dell’assalto al Campidoglio; e sostegni verso Israele esplicitati attraverso la rimozione delle restrizioni sulle vendite di armi - tra cui le bombe da 2000 libbre-, la cancellazione delle sanzioni contro coloni e gruppi di estrema destra israeliani coinvolti in violenze contro palestinesi o nell’occupazione di terre in Cisgiordania; la sospensione degli aiuti a enti come l'UNRWA; il ripristino delle sanzioni alla Corte penale internazionale.

Mentre firmava, una giornalista gli ha chiesto quanto fosse fiducioso sulla possibilità di arrivare alla terza fase del cessate il fuoco a Gaza. La sua risposta è stata rivelatrice: “Non sono fiducioso. Non è la nostra guerra, è la loro guerra, ma non sono fiducioso.” Poi, commentando le immagini di Gaza, ha affermato: “È come un enorme cantiere di demolizione, quel posto deve essere ricostruito in modo diverso.” Alla domanda se fosse disposto a contribuire alla ricostruzione, ha replicato: “Potrei. Gaza è interessante. Ha una posizione fenomenale sul mare e il clima migliore. Si potrebbero fare cose straordinarie con Gaza.” In poche parole, un potenziale da sfruttare.


Il momento della verità è arrivato ieri, durante l’udienza al Senato per la conferma di Elise Stefanik, candidata di Trump come ambasciatrice all'ONU. In quella sede, ha dichiarato che la lotta contro il "marciume antisemita" nelle Nazioni Unite sarebbe stata la sua priorità e ribadito la sua opposizione al finanziamento dell’UNRWA, definita ‘un covo di terroristi’. La vera rivelazione è emersa però quando, rispondendo al senatore Chris Van Hollen, che le chiedeva di chiarire la sua posizione rispetto alle visioni di Smotrich e Ben-Gvir sui Territori occupati, Stefanik ha affermato senza esitazioni di condividere il loro punto di vista: secondo lei, il diritto di Israele sulla Cisgiordania è sancito dalla Bibbia.

Van Hollen ha cercato di sottolineare che i palestinesi hanno diritto all'autodeterminazione, ma ogni volta Stefanik ha negato questa idea. Quando le ha chiesto se i palestinesi avessero diritto all’autodeterminazione, ha risposto: “Il popolo palestinese merita molto di più dei fallimenti che ha avuto. Ovviamente meritano i diritti umani.” Un’affermazione che, pur nella sua apparente apertura, mostra l'assenza di un reale riconoscimento della sovranità palestinese.

Non è un mero errore ideologico, ma un chiaro segnale che la politica statunitense sta legittimando il possesso territoriale con una pretesa 'divina', riportando l’immaginario collettivo a una visione medievale, dove le frontiere sono tracciate dalla mano di Dio. Così, la Bibbia non si limita a essere un testo religioso, ma si trasforma in un atto notarile, un contratto che, secondo questa visione, è firmato direttamente da Dio per sancire il diritto esclusivo di Israele sulla terra promessa.

Van Hollen ha ragione nel dire che sarà "molto difficile" raggiungere la pace e la sicurezza in Medio Oriente finché opinioni simili saranno al centro della politica estera statunitense. Le parole di Stefanik sono l'indicazione di un cambiamento plateale nella visione americana della questione israeliana e palestinese.
Trump, dopo aver siglato gli Accordi di Abramo, che hanno normalizzato le relazioni tra Israele e alcuni paesi arabi, potrebbe credere che un accordo con Israele sia a portata di mano. Ma potrebbe non essere nello stesso modo in cui lo vede, o fa finta di vederlo, la comunità internazionale che osserva con scetticismo una prospettiva che sembra sempre più lontana. La 'soluzione dei due Stati' è un’idea tanto auspicabile quanto irrealizzabile. Sul terreno, la Cisgiordania è un frammento senza continuità, ogni giorno strappato pezzo dopo pezzo: terre confiscate, attacchi dei coloni, incursioni dell'esercito. La repressione è ormai sistematica e la sua intensificazione, come nelle ultime 24 ore, dimostra quanto sia pericolosamente lontano un accordo pacifico.

Probabilmente, Trump ha già compreso questa realtà, e forse l’ha persino superata, come dimostra il suo ruolo nella conclusione dell’accordo per il cessate il fuoco a Gaza. Così, si torna al punto di partenza, al momento in cui firmava ordini esecutivi e suggeriva che Gaza potrebbe essere una risorsa da gestire in modo 'diverso'. Un’idea machiavellica per mettere in discussione la soluzione dei due Stati, un dubbio che Elise Stefanik ha confermato ieri.

Certo, in mezzo a tutte queste incertezze, una cosa è chiara: la Bibbia può essere molte cose, ma non sarà mai un documento capace di legittimare il diritto esclusivo di un popolo su una terra. Sarebbe come se oggi i romani, risvegliandosi un mattino, reclamassero la proprietà di territori che vanno dalla Spagna al Vallo di Adriano, dalla Dalmazia all'Asia, dalla Siria all'Egitto, in nome dell'Impero e degli dei dell’Olimpo. O come se i greci, brandendo l'Iliade, rivendicassero il possesso di Troia. Una richiesta che verrebbe immediatamente respinta dalla comunità internazionale come irricevibile e grottesca.

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