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Ita-Lufthansa, una storia di inadeguatezza tipicamente italiana. Riceviamo e pubblichiamo

Ita-Lufthansa, il commento di un nostro lettore, Stefano Favero, all'articolo pubblicato il 19 novembre sull'accordo di acquisizione. E la replica del giornalista di Affari. Riceviamo e pubblichiamo

Ita-Lufthansa, una storia di inadeguatezza tipicamente italiana

La storia della nostra “compagnia di bandiera” è la plastica rappresentazione dell’inadeguatezza tipicamente italiana di gestire in maniera manageriale un’azienda, laddove la politica abbia un ruolo di indirizzo nelle strategia d’impresa.

Ma è anche esempio della colpevole e consapevole miopia, sempre della politica, che si ostina a guidare una società secondo le linee della più squisita demagogia.

Chiude il cerchio la scelta di manager incaricati sempre dalla politica e quindi non solo di dubitabile competenza, ma sicuramente asserviti e proni alle logiche clientelari.


Quando un’organizzazione che nel suo dna deve avere lo scopo unico di fare profitti, per sopravvivere, non è condotta da chi sappia esprimere le giuste strategie industriali, allora diventa Alitalia.

Ancor più se la demagogia di cui sopra giustifica un accanimento terapeutico e lo finanzia con i soldi pubblici, ovvero quelli dei contribuenti, anche Suoi e miei.


La storia di Alitalia, a onor del vero, non è solamente un rosario di fallimenti. Probabilmente solo Domenico Cempella ha saputo guidare e riorganizzare le operazioni della compagnia, consentendole di consolidarsi come attore di rilievo nel mercato mondiale.

E con numeri non rossi.

Però, ancora una volta, è stata la politica a interferire e creare gli ostacoli di percorso.


L’inizio della fine della virtuosa gestione Cempella si ha con le scaramucce su Malpensa e le posizioni di campanile di coloro che intendevano difendere Fiumicino e Linate.
Come già detto, la miopia strategica e il dilettantismo manageriale della politica, ancora una volta costruirono le barriere.

La storia della compagnia è stata costellata di episodi diabolicamente ripetuti, ne siano ad esempio i fallimenti nei tentativi di alleanze tentati con KLM e poi con Air France.


Non è un caso se la partenza di Cempella coincise con la caduta verticale di Alitalia; il crollo clamoroso del valore delle azioni dell’azienda che ne è seguito (-90% in 5 anni) è lì a testimoniare le scelte scellerate della politica.

Solo 3 anni prima delle sue dimissioni, Cempella aveva portato l’azienda in utile (!).


Dal 2006 si sono susseguite decisioni sbalorditive sulla strategia aziendale: tentativi falliti di vendita con l’allora governo Prodi, riaperture ad un’alleanza questa volta congiunta con Air France e KLM, nuovamente fallita durante il governo Berlusconi IV.


Tanto bene lavora la politica, decidendo come gestire la compagnia, che questa nel 2008 finisce in amministrazione controllata.

Quell’anno c’è da divertirsi con le comiche dei tira e molla tra il Governo e CAI che aveva intenzione di rilevare la compagnia ormai decotta, ma in questa circostanza si infilano anche i sindacati e il 1° round delle trattative frana clamorosamente.


Le vicende societarie si arricchiscono di un nuovo scenario, quando Alitalia finisce in Tribunale per bancarotta.

E’ stato calcolato in modo molto semplice che la scelta finale di arrendersi e vendere a CAI, rispetto al precedente progetto di allearsi con Air France abbia avuto un costo superiore ai 3 miliardi di euro.
Intanto, il famigerato prestito del governo Berlusconi viene prevedibilmente dichiarato come illegittimo dalla Corte di Giustizia Europea.

Quando nel 2009 si vende una quota a KLM-Air France, viene ceduto il 25% a 322 milioni di euro.
Giova qui contestualizzare l’odierna chiusura con Lufthansa, che ha speso la medesima cifra per coprire il 41%.


E’ evidente l’imbarazzante perdita di valore della compagnia in quasi 15 anni.
E comunque, a chi oggi lamenta, come Indelicato, lo spostamento del baricentro su Francoforte e Monaco con l’arrivo di Lufthansa, per onestà intelletttuale va ricordato che Amsterdam e Parigi diventarono le due sedi di riferimento, insieme a Roma, della precedente “fusione”; quindi, nulla di nuovo.

L’alleanza con KLM-Air France, la riorganizzazione delle rotte con forte focus sul mercato domestico, l’impegno diversificato su alcune rotte internazionali ed intercontinentali in sinergia con le altre compagnie, per la verità, aiutarono i conti di Alitalia nel primo triennio, con una riduzione delle perdite.

Il mercato, però, che è re e difficilmente contestabile, ha nuovamente messo la gestione dell’azienda di fronte ai conti presentati dalle scelte strategiche e alle fluttuazioni sue proprie.
Ricordiamo i periodi nei quali la stampa stigmatizzava il bagno di sangue giornaliero e il trend consolidato di perdite di quasi 20 milioni di euro ogni mese.


Nessuna sorpresa che l’azienda si “decapitalizzasse”.

Ci fu poi il periodo Etihad, con la ridda di reazioni pro e contro e comunque con la vendita del 49% di Alitalia agli emiratini.


Nulla di sostanzialmente stravolgente dal punto di vista dell’efficacia delle strategie, tantevvero che nuovamente Alitalia si arrese all’obbligo di tornare sotto amministrazione controllata.
E arriviamo infine a ITA, nata dalle quasi-ceneri di Alitalia, con un’operazione spezzatino che ha seriamente ridimensionato le forze dell’azienda, sostanzialmente dimezzando la flotta e riducendo drasticamente le destinazioni.

La performance di ITA, a onor del vero, ha registrato una crescita sotto diverse voci d’analisi: ha aumentato i ricavi, ridotto le perdite, assunto personale e trasportato un numero crescente di passeggeri.


Ma certamente è partita non proprio sotto i migliori auspici, essendo di proprietà integrale del Governo.
Più saggiamente, però, lo stesso Governo ha compreso l’opportunità di rinforzare l’azienda nel legame strategico con chi potesse contribuire ad alleanze funzionali al settore, ovvero con partner industriali attivi nell’aviazione civile; si decide quindi di vendere parte della proprietà.

La prima offerta accettata, ma poi rifiutata, prevedeva di ricavare quello che oggi ci riconosce Lufthansa per più della metà delle quote societarie.


Pertanto, il deal chiuso oggi con i tedeschi è persino migliorativo di quanto poteva concludersi con Certares nel 2022.
E fortunatamente, i francesi e gli olandesi ritennero di non avanzare alcuna proposta, forse facendo tesoro delle precedenti esperienze con gli italiani.


Lufthansa rappresenta probabilmente la più solida prospettiva di crescita e stabilità della vecchia Alitalia.

E’ un’azienda sostanzialmente privata e la presenza del governo tedesco è inferiore al 15% e comunque questo non è il maggiore azionista.


Il valore reale della compagnia, che è espressione della sua gestione e dei risultati, si può sintetizzare in un’operazione flash di sostegno all’azienda, effettuata dal governo tedesco, che acquistò quote nel 2021 che vennero rivendute a privati l’anno successivo al triplo del valore.

La compagine societaria della compagnia è espressione di una pluralità di profili imprenditoriali e di società di investimenti.


Alitalia (meglio sarebbe dire ITA) è ora anche parte di una robustissima alleanza ed è in buona compagnia con esempi di salvataggio virtuoso, quali Swiss e Austrian; il piano industriale di Lufthansa su ITA è molto chiaro e non si limita alla sola crescita della quota dal 90% in 3 anni, ma anche ad un irrobustimento della flotta.

In termini di adeguatezza del partner, l’acquisizione da parte di Lufthansa mette ITA nella migliore prospettiva di partnership tra i possibili gruppi candidati.
Fin qui nel merito dei numeri.


C’è poi, sempre parlando di cifre, il valore aggiunto di aver messo un punto finale alla storica ed incommentabile emorragia che Alitalia ha comportato per i conti dello Stato.
Le stime parlano di oltre 13 miliardi di euro finiti complessivamente nella voragine storica della compagnia.

Qualcuno potrebbe ritenere che si sia trattato di cifre indispensabili per sanare i conti e ridisegnare un’azienda che potesse finalmente stare sulle proprie gambe.
Ma questa cifra si è resa necessaria esattamente per la ragione contraria.


Quindi, il valore di ITA non va visto solo in termini di cifre che in ultima analisi verranno sborsate da Lufthansa per raggiungere il 90% delle quote, ma anche di quelle che lo Stato (quindi Lei ed io) non verserà più.

Indelicato conclude il pezzo con la frase “Ma il prezzo subito dal nostro Paese, come detto, risulterà salatissimo”.
Credo che la riflessione delle righe precedenti possa smentire che questo salatissimo prezzo non si dia affatto nel senso letterale, ovvero dei costi che il contribuente italiano dovrebbe sostenere.

Al contrario.

Non rimane quindi che l’altro tema affrontato nell’articolo, ovvero il sacrificio dell’idea di possedere una compagnia di bandiera.

Su questo approccio la valutazione diventa del tutto soggettiva, non essendo monetizzabile il valore aggiunto di avere una proprietà nazionale di ITA.

A mio modesto parere, è un tema che incarna il più puro distillato di becera demagogia.
Si tratta di una questione squisitamente romantica, cavalcata da chi ha voluto banalizzare e giustificare negli anni il flusso ininterrotto di denari pubblici, appellandosi all’inalienabilità di un patrimonio culturale e di un brand (solo quello) che ispirasse l’idea di Italia che all’estero dovrebbero avere (gli italiani avevano ben chiara l’idea dei costi spaventosi del baraccone).

Politici noti, come Berlusconi, ma anche Di Maio e Salvini, condussero la propria crociata in difesa della compagnia di bandiera e le loro argomentazioni si fulcravano sostanzialmente sulla possibilità di controllo dei flussi, a tutto vantaggio del settore turistico nazionale.
Si trattava però di posizioni inconsistenti dal punto di vista della sostanza.

L’esempio della deregulation che venne avviata negli Usa, poi tradottasi nella liberalizzazione  delle rotte (e delle tartiffe) ha reso il volo una normalissima merce e, come tale, lo ha sottoposto alle regole del mercato.

Se c’è una domanda, allora si creerà un’offerta.

Se il turismo mondiale vuole raggiungere l’Italia, ha a disposizione tutta la gamma possibile di opzioni di rotte e vettori.

Ma ITA non copre tutte le tratte e comunque non rappresenta la soluzione più economica.
Nel 2023, ITA non figurava nemmeno tra le prime 10 compagnie per traffico di passeggeri in Europa, mentre Lufthansa era seconda, dopo Ryanair (e nelle top 10 sono 4 quelle low-cost).


Risultato: in un anno di riferimento, l’ultimo con valori definitivi e con ITA a tutto titolo di potersi definire “di bandiera”, i numeri condannano la logica patriottica.
Nel 2023 l’Italia ha accolto quasi 58 milioni di turisti stranieri, terza dopo Francia e Spagna.
Lo scorso anno, i passeggeri in arrivo e transito negli aeroporti italiani sono stati poco meno di 200 milioni.

ITA ha mosso poco meno di 15 milioni di passeggeri e, con un load factor 2023 al 78.6%, significa che se avesse riempito tutti i voli come un uovo avrebbe trasportato circa 19 milioni di passeggeri.

Avrebbe coperto il 10% del traffico complessivo.

Conclusione: sia lodato il Signore se altre compagnie aeree hanno trasportato più del 90% dei transiti nel nostro paese; sarebbe stata una Caporetto se avessimo dovuto contare sulla capacità della sola compagnia di bandiera per soddisfare i flussi.

Più di metà del traffico compelssivo è stato coperto dalle compagnie low-cost.


Morale: non si può affatto dire che una compagnia di bandiera abbia rappresentato (o avrebbe potuto) la chiave di volta per garantire l’appeal turistico del nostro paese e, me lo si permetta, è estremamente improbabile che chi ha scelto ITA per venire in Italia avrebbe rinunciato al viaggio se ITA fosse stata di proprietà straniera (o se non fosse nemmeno esistita).

Dove è scritto che essere acquistati da altre compagnie significhi inevitabilmente un sacrificio?
Ci sono casi che smentiscono questa linea di pensiero, uno fra tutti quello di KLM, acquistata da Air France che, a seguito di questo, incrementò traffici e ricavi.
Idem per Scandinavian dopo la vendita a privati.

Ed appartenere ad un gruppo che abbia le spalle finanziariamente solide è certo garanzia che sia più facile reagire agli scossoni del mercato.

Facilmente smentibile l’altra chiave di lettura: nei voli a lungo raggio si privilegiano le compagnie del paese di destinazione (o quelle domestiche nel paese di partenza).
L’offerta di rotte incrociate per ogni destinazione, internazionale ed intercontinentale, si sono adeguate alla domanda del mercato che più che mai privilegia il tema costi, spesso a discapito della praticità di rotte in coincidenza, talvolta mischiando vettori di compagnie diverse per andare dal punto A al punto B, transitando per un punto C.

Pertanto, cercando di interpretare le varie gistificazioni a sostengo dell’idea di compagnia di bandiera, sembra evidente che le argomentazioni di sostanza vengano tutte meno, per una ragione o per l’altra.

Se non ci resta che il valore simbolico, puramente soggettivo (quindi discutibile) ed effimero, di una compagnia con la bandiera italiana sul timone di coda ed un nome che evochi il nostro paese, credo che il prezzo da pagare per soddisfare una simile malinconia sia stato dichiaratamente eccessivo e per troppi anni.

La ringrazio per l’attenzione.

Cordiali saluti,
Dott. Stefano Favero

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Egregio dott. Favero,

Ho letto la sua risposta al mio articolo “Ita-Lufthansa, l'affare lo fanno i tedeschi. E noi voleremo alle loro regole”. Sottolineare le negatività legate alla perdita di una compagnia di bandiera, non vuol dire essere legati a un basso romanticismo di bandiera. Nella sua argomentazione, lei parte dal presupposto che io stia intervenendo sulla questione sotto un profilo marcatamente politico e che, soprattutto, stia commentando l'operazione Ita-Lufthansa in modo prettamente negativo. Così facendo, ha attribuito al sottoscritto pensieri (prima ancora che parole) mai scritti. Il mio riferimento al "prezzo salatissimo da pagare" è chiaramente legato alla circostanza di non avere più strumenti idonei per incidere a livello interno. Un concetto espresso, nell'estate del 2023, da un esperto nel settore aereo come Paolo Rubino. Il quale, a proposito della vendita imminente di Ita a Lufthansa, scriveva come "in tal modo il governo ha rinunciato consapevolmente ad avere uno strumento industriale nazionale cui “ordinare” di servire destinazioni domestiche sfavorite dalla geografia o immature per sviluppo economico e di farlo a prezzi calmierati facendosi carico delle eventuali perdite".

Una dichiarazione, quella sopra citata, emersa nel periodo delle polemiche tra governo e compagnie private a proposito degli algoritmi e dell'aumento dei prezzi dei biglietti. Se a livello politico la continuità territoriale è un argomento avvertito come importante, allora è chiaro che senza strumenti idonei il problema non verrà mai affrontato in modo serio. Con amministrazioni, locali e non, che spenderanno cifre importanti per pagare mancette e rimborsi vari. Costi che verranno pagati ovviamente dai cittadini, fermo restando che nessun governo si arrenderà mai, specie durante le fasi elettorali, ad alzare le braccia difronte agli elettori per lavarsi le mani in nome del mercato. Da qui le mie preoccupazioni, niente affatto legate a sentimentalismi vari. O peggio, come scrive lei, ad argomentazioni di natura puramente demagogica. Noto, ma qui siamo sul punto delle mere impressioni personali, un certo pregiudizio in tal senso. Come se, per l'appunto, chi guarda con un certo dispiacere al tramonto definitivo della possibilità di avere una compagnia di bandiera debba per forza essere animato da un certo romanticismo di bandiera.

Detto questo, sono d'accordo anche io sul fatto che, oggi, non c'erano molte alternative al matrimonio con Lufthansa. Se il Paese paga un prezzo salato, del resto, vuol dire che acquista in cambio qualcosa. L'operazione Ita - Lufthansa permetterà di salvare l'azienda e di ancorarla a un gruppo tra i più importanti al mondo. E questa è una buona notizia, non ci sono dubbi. Il problema è che si è dovuto arrivare fino a tanto, fino a cedere una ex compagnia di bandiera, per giungere a un salvataggio. Farlo presente non vuol dire avere rimpianti di ordine romantico. Più semplicemente, ritengo che nel corso degli anni avremmo potuto sviluppare un importante gruppo industriale capace di competere con i vari gruppi internazionali e avere una certa voce in capitolo a livello interno. Chi ha avuto delle responsabilità ha preso decisioni che hanno portato a una direzione opposta. Non resta che prenderne atto. Senza per forza sventolare bandiere o fazzoletti.

Mauro Indelicato