Libri & Editori
L’umanità viaggia dritta verso l’estinzione: solo la letteratura può salvarla
Siamo le prime generazioni a vivere nel rischio di un’estinzione di specie. La prima a essere autoprovocata dalla specie stessa
Una lezione in tal senso ci viene da un breve racconto del già citato Günther Anders, intitolato Il futuro rimpianto, che ha per protagonista Noè, profeta inascoltato mentre cerca invano di aprire gli occhi ai suoi contemporanei perché non riesce a rassegnarsi «ai morti di domani». La condizione di Noè e dei suoi contemporanei, osserva acutamente la Benedetti, è simile a quella in cui viviamo noi oggi, all’inizio del terzo millennio. Anche su di noi pende la catastrofe di una minaccia planetaria imminente. Anche noi siamo stati avvertiti del diluvio che sta per travolgerci, non da un Dio o da un profeta che parli in suo nome, ma da scienziati.
Ma proprio come la parola di Noè, gli avvertimenti dei climatologi, degli oceanografi e dei geofisici non riescono a provocare negli uomini di oggi, nei loro sentimenti, nei loro sistemi di vita e di produzione una svolta radicale che scongiuri la catastrofe annunciata. Con una fondamentale differenza. La tragedia dei Noè odierni non sta tanto nel non essere creduti, ma nell’essere creduti senza effetti, nell’inerzia che segue persino alla persuasione. Sappiamo con certezza che un diluvio universale sta per arrivare, ne avvertiamo già le prime gocce, ma un tale sapere non basta a farci fare un passo avanti: «non è la consapevolezza della possibile catastrofe che ci manca, ma la forza di uscire dalla paralisi che l’attuale stato delle cose genera», avverte con lucida amarezza la Benedetti.
Per invertire questa tendenza suicida, è necessario partire dal linguaggio, passando da una parola assertiva (o annunciatrice), a una suscitatrice. Se, infatti, la prima – quella più diffusa nel mondo della scienza, della politica e dell’informazione – si limita semplicemente ad annunciare la catastrofe futura, l’altra – che è nelle corde della letteratura e degli altri saperi umanistici, tra cui la filosofia – invece ne impersona performativamente il dolore per suscitare le forze sopite che aiuteranno a evitarla. È così che la profezia di una possibile fine dell’umanità non viene «semplicemente conosciuta nel logos ma anche appresa nel pathos, pensata empaticamente nel sentimento anticipante».
È la strada che percorre il Noè di Anders, il quale, non esorcizzando la paura ma spingendo i suoi contemporanei ad attraversarla con coraggio, riesce alla fine a far scattare in loro il senso di emergenza. È la strada che possiamo e dobbiamo percorrere noi oggi affidandoci alla forza suscitatrice della letteratura, la quale anticipando con vividezza la catastrofe futura può ottenere il risultato di scuotere gli animi, di bucare la loro scorza di indifferenza, di creare disturbo al modo di pensare solito e così far nascere un senso di emergenza in grado di fronteggiarla: «È questa la potenza della parola, ciò che essa può fare in questo tempo tragico: non solo analizzare, far conoscere, rappresentare ciò che c’è, ma suscitare un mutamento, immaginare qualcosa di diverso dall’esistente, di inaudito, di impensato. Scuotere dal sopore provocato da strutture mentali fossilizzate, attingendo a una potenza sopita, sentimentale e di pensiero».
Se c’è una cosa che spetta proprio alla letteratura, «è di rompere quelle gabbie del pensiero e della sensibilità, per dare corpo a una visione più vasta e più potente dell’umano», allargando la prospettiva «fino a provocare qualcosa di non immaginabile, una svolta, un cambiamento di rotta, un’invenzione di specie». Allargare la prospettiva significa prima di tutto riconoscersi come terrestri. La nostra identità di terrestri è, infatti, la più evidente ma anche la più rimossa: «Tutti la dimenticano. La politica la rimuove quando fa leva su identità piccole e parziali, nazionali, religiose, culturali, etniche, razziali… La cieca logica economica che guida l’attuale sistema produttivo addirittura la cancella dai suoi calcoli ragionando di sviluppo produttivo senza tener conto dei limiti della Terra».
Riconoscersi come terrestri, invece, ci spinge a ripensare radicalmente la grammatica della nostra comprensione del mondo, a correggere i limiti di visione che ci hanno condotto a questa emergenza, a prefigurare altre possibilità ancora impensate per lo sviluppo della civiltà umana. In definitiva, «è il seme per far crescere una struttura di pensiero e di sensibilità adeguata all’enormità del pericolo planetario. Un primo passo verso la metamorfosi che ci aspetta». Ce lo insegnano le opere letterarie del presente e del passato, da Omero ad Amitav Ghosh, passando per quel Dostoevskij goffamente “censurato” in questi giorni di guerra. Ce lo insegnano le opere cinematografiche, come Don't Look Up, uno dei film più visti e discussi degli ultimi mesi, i cui protagonisti interpretati da Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence ci invitano a non rassegnarci ai «morti di domani».
Recensione del libro di Carla Benedetti (Università di Pisa): "La letteratura ci salverà dall'estinzione" (Einaudi).