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Maria Grazia Calandrone: “I nostri corpi sono occasioni momentanee”

Di Mary Barbara Tolusso

Il romanzo in prosa lirica “Splendi come vita” parte dall’esperienza della poetessa e scrittrice, abbandonata dalla madre naturale (che poi si suicidò) a 8 mesi

Quando un poeta segue il flusso della narrativa, difficilmente la poesia lo abbandona. Ci restituisce una scrittura che non è esattamente prosa e non è esclusivamente poesia. È un’altra cosa. L’esistenza emerge da una prospettiva evocativa, non solo descrittiva. A poco più di un anno dalla raccolta in versi Il giardino della gioia (Mondadori-Specchio), Maria Grazia Calandrone esce ora con il romanzo Splendi come vita (Ponte alle Grazie, pag. 224, euro 15,50). Non è una semplice autobiografia. Certo Calandrone parte dalla sua vita, dagli eventi fondamentali di un vissuto, ma la ricerca linguistica scava ben oltre i fatti, ci conduce a temi fondamentali, l’amore, l’abbandono, la morte, il tempo, i rapporti genitoriali, il tentativo, anche, di riformulare i sentimenti esaminandoli a una certa distanza. È quasi un romanzo scritto in versi, un poema, e della poesia ha anche la fulminea ispirazione.

Qual è stato il primo stimolo alla sua stesura?

Credo che questo romanzo sia conseguenza diretta del confinamento al quale siamo stati forzati – osserva l’autrice. – Stare ferma ha fatto diventare il mio stesso corpo un magnete per le persone scomparse, che avevano abitato questa casa. Possiamo dire che dai muri stessi della casa siano affiorati i grandi archetipi della mia vita, che ho desiderato diventasse rappresentazione di una vita comune. 

La scrittura pare ruotare intorno a un tema, quello dell’abbandono. Un imprinting emotivo che, come lei scrive, è difficile non ricercare nelle successive relazioni. Come se ne esce?

A proposito delle relazioni successive alla relazione primaria con Padre e Madre (nel mio caso, scrivo che la musica ascoltata nell’infanzia ha contribuito alla scelta del padre dei miei figli, perché la musica è forte più del tempo), credo che tendiamo a cercare il bene e il male che già conosciamo, siamo animali psicologicamente poco avventurosi. Ma credo anche possa accadere che prendiamo fiducia o, semplicemente, che la ripetizione ci stanchi e proviamo curiosità. Quando le cose vanno per il meglio, la novità gioiosa di permettere a un altro di starci accanto riducendo la quota di ambivalenza con la quale fino ad allora abbiamo amato e ci siamo lasciati avvicinare.

La maternità si eleva nei suoi apici di amore e disamore, è un romanzo che ha il merito di comunicarci (anche) le fragilità dell’identità genitoriale. Non trova che oggi l’infanzia sia eccessivamente protetta?

Assolutamente sì. Credo che siamo in grado di resistere più di quanto sappiamo e credo che il naturale istinto di protezione che proviamo nei confronti dei figli vada rimodulato sulla fiducia elementare nella volontà di sopravvivere, che nasce col nascere. Il nostro compito di genitori è guidare a distanza e intervenire quando riteniamo che il percorso rischi di deragliare. Fare un passo indietro e tenere il silenzio è il momento più arduo del lavoro di padre e madre.

Lei racconta molte esperienze che si inseguono a catena, da Scientology alla politica, dalla politica alla poesia, tutte hanno un codice comune, la ricerca della libertà. Che cos’è la libertà per Maria Grazia Calandrone?

La cifra del mio stare al mondo, che applico alla vita come alla poesia e anche nel mescolare, come nel caso di Splendi come vita, i quarant’anni di esperienza fatta con la poesia a una forma distesa, che imita la prosa ma mantiene il silenzio della poesia. Ho lavorato a questa operazione di confine perché avevo bisogno di una narrazione e dell’ironia che la poesia non (mi) permette, ma desidero che – così come in poesia – anche nella prosa chi legge possa rispecchiare la propria esperienza dentro la narrazione dei fatti miei, perché questi fatti mettono in scena la relazione più archetipica fra tutte, quella con una Madre.

Sa che il suo libro per certi aspetti ricorda Madre d’inverno di Vivian Lamarque? Lo ricorda nella verità dell’amore che alla fine deve corrispondere ai fatti, molto meno alle parentele biologiche. In che parte ha influito sapere di essere stata adottata nella sua vita? Perché l’incipit del romanzo affronta questa esperienza più come un trauma di sua madre Ione Calandrone, che sua.

Ho sempre molto amato la scrittura di Vivian Lamarque, l’ho sempre trovata coraggiosissima, così apparentemente lieve e invece dritta come un filo a piombo nel segreto più segreto di tutti. Dunque il suo accostamento mi inorgoglisce. L’adozione è un mero fatto del tutto ininfluente, io credo solo nelle relazioni. Ma credo che mia madre (come ha recentemente intuito la mia amica Daniela Mazzoli, che ringrazio pubblicamente per la sua profondissima comprensione), rivelandomi il suo segreto, abbia compiuto il più grande gesto d’amore e protezione per me: mamma mi ha immediatamente rivelato che fossi figlia adottiva perché aveva saputo che una ragazza, scoprendolo tardivamente, si era uccisa. Dunque ha deciso, ha scelto deliberatamente di tenere al sicuro la mia vita, dicendomi qualcosa che la faceva soffrire e addirittura vergognare, mentre avrebbe dovuto andare fiera del generosissimo abbraccio che la sua vita mi aveva elargito.

C’è poi una bellissima definizione di poesia, la sola cosa che riesce a convertire e restituirci l’esperienza di un dolore in bellezza. Ma ce n’è un’altra, in base alle sue prime esperienze di scrittura poetica, in collegio: la libertà di ridefinire il mondo...

Credo che qualunque artista sia tale perché ha dentro sé un mondo che non coincide con quella che usiamo chiamare realtà. L’arte nasce dalla frizione tra il mondo immaginato e il mondo reale. Nel mio caso, il mondo reale era un costrittivo collegio di suore e il mondo immaginato era (ed è) un mondo pervaso di libertà, armonia e relazione fra pari. Nell’ampio divario fra questi due mondi si colloca la parola che ridefinisce, rievoca una lingua collettiva, richiama in vita anche i morti.

È piuttosto sorprendente anche il suo incontro con Ornella Muti. Ce lo vuole raccontare?

Avendo perduto la mia mamma biologica a otto mesi e sognando da sempre una donna che credevo fosse la sua figura, rimasi molto colpita quando scoprii che la figura sognata somigliava invece a Ornella Muti e venni colta dall’urgenza di dirglielo. Partii dunque, diretta agli studi di Canale 5 a Cologno Monzese, dove lei registrava “Premiatissima” e, in mezzo alla neve che ricopriva il piazzale antistante, nacque un’amicizia radiosa, durata da quel 1985 per molti anni (finché lei si trasferì fuori Roma), con una persona impressionantemente generosa e abbastanza ironica da fidarsi di me.

Il libro inizia con una nascita, la sua, e si conclude con un’altra prossima vita, l’attesa di suo figlio. Vita che torna, / a tutti?

La nostra vita è una provvisoria incarnazione di qualcosa che non conosciamo. Lo dico da perfettamente laica. I nostri corpi sono occasioni momentanee. Quello che conta è il grande flusso, il grande movimento al quale apparteniamo.