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Perché il tuo capo è un imbecille? Rispondono Pino Aprile e la scienza
Pino Aprile riscrive dopo vent’anni un nuovo elogio dell’imbecille, perché gli intelligenti hanno fatto il mondo ma sono gli stupidi che ci vivono alla grande
Perché il tuo capo è un imbecille? In un libro la risposta della scienza
Perché ci sono tanti imbecilli? Non riuscivo a smettere di pensarci: mi sorprendeva la naturale tolleranza che c’è per la stupidità. Mi scoprivo a chiedermi: ma gli altri si accorgono o no di come siano prive di senso troppe cose che abitualmente facciamo? E dal momento che non tutti sono scemi, possibile che non gliene importi nulla?
Poi incontrai Charles Darwin e ne fui folgorato. La scuola mi offriva una concezione tronfia dell’essere umano e delle sue «magnifiche sorti e progressive». Darwin mi insegnò a dubitarne. […]
Se nessuno, almeno credo, aveva mai analizzato davvero il problema dell’imbecillità, chiedendosi da dove questa derivi, molti si sono dedicati allo studio dei meccanismi che ne assicurano la diffusione, facendo sì che gli stupidi riescano a influenzare profondamente la vita di tutto il genere umano (compresi gli intelligenti).
Uno dei più noti moltiplicatori di imbecillità è il cosiddetto principio di Peter (da colui che a suo tempo lo individuò, Lawrence Peter), che recita: «In qualsiasi gerarchia, ognuno tende a essere promosso, finché non raggiunge il suo livello di incompetenza; pertanto, ogni incarico è destinato a finire nelle mani di un incapace».
Si tratti di strutture aziendali, politiche, culturali, religiose o altro, la regola non cambia.
Il principio di Peter opera secondo un meccanismo logico abbastanza semplice. Chi entra in un sistema gerarchico e svolge bene il proprio lavoro di solito ‘‘fa carriera’’: sale sul gradino superiore nella scala. Se anche in quella posizione si dimostra efficiente, è ragionevole pensare che sarà ancora promosso. E così via. A questo modo, occupa livelli sempre più elevati, di maggiore responsabilità; ma le complicazioni crescono di pari passo e aumentano la qualità e la quantità dell’impegno e delle doti richieste. Fino a quando il nostro uomo ottiene un incarico con un grado di difficoltà superiore alle sue capacità.
A quel punto, si rivela inefficiente, e la sua carriera si arresta. Attenzione: non verrà degradato, retrocesso a una posizione adeguata alle sue doti. Continuerà a occupare il posto che ha fatto emergere la sua natura di incapace e per il quale si è dimostrato inadatto.
Questo principio ebbe un grande successo. Ma ha un difetto: è fondato sul presupposto della razionalità. Voglio dire: parte dall’idea che, in una gerarchia, i comportamenti umani, almeno fino a un certo punto, siano ispirati a criteri ragionevoli. È in base a un principio intelligente (secondo Peter) che viene promosso il migliore, anche se verrà il momento in cui si rivelerà un imbecille. Ma fino ad allora, il meccanismo obbedisce a regole logiche. Non sei scemo, operi bene, e vai avanti; quando ti scopri incapace, la tua corsa finisce.
Ma le cose non stanno così. Gli sforzi per spiegare il diffondersi dell’imbecillità non riescono a cogliere il vero interrogativo, che è questo: come è possibile che la società continui il suo cammino nonostante l’aumento della stupidità? C’è una sola risposta possibile: l’intelligenza non è (più) necessaria per far marciare il mondo: l’imbecillità sa farlo altrettanto bene. E persino meglio.
Il cretino non solo non ha una funzione negativa, ma anzi ha assunto un ruolo salvifico: la sopravvivenza della nostra specie dipende ormai dall’imbecillità, come un tempo dall’intelligenza.
Le persone di genio si rifiutano di concepire e di accettare questa verità. Per loro è semplicemente impossibile pensare che l’essere umano debba diventare stupido per poter avere un futuro. Vedono l’essenza della nostra specie nelle sue doti intellettuali; e anche quando si rendono finalmente conto delle proporzioni assunte dall’imbecillità, si ostinano a considerarla un fatto deleterio e accidentale.
L’errore è dare, sulla stupidità, un giudizio etico o estetico. Essa va considerava ‘‘tecnicamente’’, alla pari dell’intelligenza, come uno degli strumenti di cui l’evoluzione può disporre. Se l’imbecillità avesse un valore negativo per la nostra specie, i casi sarebbero due: o ci saremmo estinti da un pezzo, o non ci sarebbero più cretini. Una caratteristica nociva così diffusa, infatti, porta alla sicura estinzione, oppure viene corretta dalla natura. La specie umana, al contrario, è lungi dallo scomparire e la stupidità continua a espandersi. Non c’è altra conclusione che questa: l’imbecillità è necessaria alla sopravvivenza della nostra specie, per quanto possa dar fastidio agli intelligenti rimasti.
Le nostre comunità sono strutturate in base a princìpi gerarchici: più o meno vistosi, più o meno brutali, comunque presenti. E le burocrazie tendono a diffondere stupidità (lo abbiamo sempre sospettato; ora sappiamo perché). Se davvero l’imbecillità avesse una funzione distruttiva, le società umane sarebbero al collasso: invece godono di ottima salute e si moltiplicano.
Evidentemente, è proprio la stupidità che sostiene le strutture sociali e ne garantisce il futuro. Le burocrazie, dunque, contrariamente a quanto male si pensa di loro, hanno una funzione positiva, non malgrado, ma proprio perché accrescono il numero e il potere dei cretini.
La gerarchia è lo strumento che l’evoluzione ha inventato per raggruppare i sapiens sapiens e costringerli alla demenza. Se la guerra, espressione dell’aggressività umana, raduna i migliori della specie per sterminarli, il sistema burocratico, espressione del nostro istinto sociale, mette assieme i cervelli e li spegne: è la continuazione della lotta all’intelligenza, condotta con altri mezzi. […]
Tutti possono riferire di esperienze che hanno visto trionfare l’imbecillità, persino dove e quando si trattava di questioni molto serie.
Il mio direttore, quando andavo a proporgli un’idea che mi pareva brillante, mi ammoniva: «Regola numero uno: ricorrere alle cose intelligenti, solo dopo aver esplorato le infinite possibilità dell’ovvio». E quando decisi di prenderlo sul serio, capii che aveva ragione.
Perché i comportamenti dei sistemi gerarchici sono così immancabilmente stupidi? È mai possibile che tutti gli imbecilli si siano concentrati nei ruoli di responsabilità? E che tutti gli intelligenti, nessuno escluso, ne siano stati eliminati? In realtà, nei posti chiave delle gerarchie non ci sono più stupidi che in qualsiasi altro gruppo umano; il tasso di imbecillità è lo stesso tra i manager, i politici, e i parrucchieri.
Le gerarchie si comportano in modo stupido, non perché siano tutti cretini coloro che ne fanno parte, ma perché non possono, per questioni di funzionalità, agire diversamente. In una burocrazia non è possibile ‘‘mettersi a fare gli intelligenti’’. […]
Oggi il mondo stesso è a misura dell’imbecille, al punto che macchine complesse e pericolosissime, organizzazioni planetarie, strutture basilari per la vita umana sono nelle mani di persone universalmente conosciute come cretini, psicotici, affetti da malattie invalidanti delle facoltà che più parrebbero necessarie a certi livelli (equilibrio, saggezza, intuizione, tolleranza, altruismo, intelligenza).
Basterà pensare a chi erano, nei momenti di maggior tensione e pericolo, i leader delle potenze mondiali, i padroni del destino della Terra. Si diceva che Gerald Ford, il presidente degli Stati Uniti nella prima metà degli anni Settanta, fosse incapace di fare due cose assieme: scendere dalla scaletta dell’aereo e masticare chewing gum. Leonid Breznev, uno dei più longevi leader della vecchia Unione Sovietica, quando non era ubriaco, appariva per quel che era: un alcolizzato. Per distruggere il pianeta, avrebbero dovuto solo pigiare un bottone. In quale specie animale due così sarebbero diventati capobranco? Mi limito a riportare esempi del passato, non perché dopo di loro sia arrivato di meglio, ma per evitare querele. Alcuni di quelli che ci parevano cretini e di cui ero contemporaneo, al confronto di chi è venuto dopo, ora sembrano giganti.
«Solo fra gli uomini il figlio del re diventa re, anche se cretino», mi diceva lo scrittore e pastore Gavino Ledda. «Per questo preferisco le pecore».
La nostra è l’unica specie che riesca a mettere a disposizione degli esemplari meno adatti tutto un corredo di strumenti per consentire loro una vita facile e sicura, garantendone così la sopravvivenza. È l’intelligenza che ha permesso questo. Ma, assolta tale funzione, essa non è più necessaria; la più grande, geniale delle sue imprese è superare la sua stessa ragione di esistere e rendersi superflua.
*Da Il nuovo elogio dell’imbecille pubblicato da Libreria pienogiorno © 2022