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Takiwatanga, autismo e comunicazione non verbale: mai arrendersi al silenzio
Marina, madre di Tony, ragazzo autistico non verbale, racconta in un libro la sua vita spesa per capire il mondo del figlio e il suo modo di comunicare
Takiwatanga, nel suo tempo e nel suo spazio: recensione e intervista all'autrice Marina Forenza Erriquez
Takiwatanga significa autismo in lingua maori, ma non solo: in un unico termine raccoglie il concetto per cui siamo noi gli “esterni” che devono adattarsi al mondo “interno” della persona autistica, nel suo tempo e nel suo spazio. Ed è esattamente questa la filosofia alla base del libro di Marina Forenza Erriquez edito da Mursia, Takiwatanga per l’appunto, che racconta il percorso compiuto, in quanto madre, per avvicinarsi a suo figlio Tony, anzi, per entrare nel suo mondo e capirne i meccanismi di comunicazione.
Un libro breve, agile, che si legge davvero in una volata ma che non per questo risparmia emozioni, colpi al cuore e qualche lacrima. Sì, perché, nonostante Marina impieghi una scrittura leggera e diretta, retaggio della sua doppia cultura statunitense e italiana che la porta a comunicare senza fronzoli o retorica, traspare chiaramente tutto l’impegno e tutta la fatica che questa madre ha impiegato per andare oltre la diagnosi di autismo, che ancora oggi troppo spesso crea una separazione tra “noi” e “loro” senza fornire gli strumenti per colmarla.
IL LIBRO Takiwatanga, nel suo tempo e nel suo spazio “Tra le tante chiavi del mazzo ho trovato quella giusta per entrare nel mondo di Tony” In tanti modi si è scritto dell’autismo: quello scientifico che definisce una condizione di esistenza, quello che usa l’ironia per sfatare il mito del “diversamente abile” e poi c’è il modo di una mamma. Un modo speciale. L’autrice ha un mazzo con centomila chiavi, ma solo una è quella che aprirà la porta del mondo di suo figlio. Tony aspetta la sua mamma proprio lì, sulla soglia, con pazienza. Questo libro è il racconto di due vite viste e vissute dal punto di vista di un genitore per un altro genitore. È un esempio per tutte quelle centomila mamme di figli speciali di come si può affrontare a modo proprio la vita senza lasciarsi sopraffare; è uno spunto di riflessione per percorsi, studi, scelte; è il comprendere che il minimo comune denominatore di ogni madre, di ogni genitore, è l’amore immenso e incondizionato che si prova per tutti i figli. Nella diversità di ciascuna vita ogni madre di figlio speciale trova la forza e il modo per donare al proprio bambino una vita a modo suo. Marina Forenza Nata in Italia, si è trasferita con la famiglia negli Stati Uniti, a Los Angeles in California, dove si è laureata in lingue straniere e dove ha conseguito il PhD in Scienze della comunicazione del comportamento. Ha insegnato lingue straniere in un liceo a Los Angeles e, dopo il ritorno in Italia, ha continuato l’insegnamento quale specialista di madrelingua inglese in un liceo linguistico. Con Mursia ha pubblicato testi di insegnamento dell’italiano ad alunni stranieri. Editore: Mursia Pagine: 94 EAN: 9788842541752 |
Troppo spesso si classificano gli autistici come persone strane, diverse, incapaci di comunicare e di adattarsi alle regole della “nostra” socialità, sia nel bene che nel male: di personalità geniali viene messa in risalto la diagnosi di autismo (ce ne sono moltissimi tipi) quasi ad ampliarne il mito, senza indagare quanto veramente questo influisca sul loro operato in quel determinato settore, oppure si ricorre con leggerezza al termine “autistico” come sinonimo di preciso, pignolo, ripetitivo, eccentrico, svalutando, anche inconsapevolmente e magari senza malizia, la condizione di chi autistico lo è veramente.
Tutto ciò contribuisce al fatto che oggigiorno sentiamo nominare l’autismo così spesso che crediamo di conoscerlo, e invece non è così. Takiwatanga vuole portare un po’ di chiarezza anche in questo ambito, mostrando la quotidianità di una famiglia che ha a che fare con questo disturbo, i tanti tentativi e i piccoli passi avanti che giorno per giorno Marina e Tony compiono, loro come migliaia di altre mamme e altri figli e altri papà.
Marina è una donna forte, schietta e ironica: la raggiungo al telefono per parlare del suo libro e mi racconta di aver appena concluso una conversazione con la direttrice del centro in cui Tony vive, riguardo all’opportunità di far vaccinare il figlio. Molto sinceramente mi confida di aver avuto dubbi, di aver preferito aver più certezze riguardo ai rischi e alle controindicazioni, ma alla fine, se avesse deciso di non vaccinarlo, Tony sarebbe stato tenuto separato dagli altri ospiti vaccinati della struttura, e a quel punto la decisione è stata presa: da mamma, il primo e unico pensiero di Marina è la salute del proprio figlio e per evitargli un brusco cambiamento di abitudini ha acconsentito alla vaccinazione.
La quotidianità, infatti, la sicurezza delle abitudini, è un fattore fondamentale per la serenità di Tony, come di molte altre persone autistiche: anche il minimo cambiamento potrebbe generare stress e chiusura dei canali di comunicazione faticosamente aperti nel tempo.
Già l’epidemia da Covid-19 ha stravolto le abitudini famigliari e della struttura che ospita Tony. “Non vedo mio figlio da quasi due mesi" dice Marina. "Prima mi facevano entrare, ci vedevamo seduti a un tavolo, distanziati 3 metri, con mascherina, senza possibilità di contatto fisico. Cercavo di mantenere il rapporto con lui facendogli ascoltare la musica che tanto gli piace, ma ovviamente si stanca in fretta, perde subito interesse e concentrazione. La vicinanza e il contatto fisico sono fondamentali per un autistico, ma mi dicevo che almeno potevo vederlo di persona. Ora non più neanche questo.”
E quindi come fai?
Lo vedo in foto. Alcune persone che lavorano all’interno della struttura mi mandano delle foto di lui, ogni tanto. Lo vedo sorridere, mangiare in sala da pranzo con gli altri ospiti, lo vedo tranquillo. Come ipotizzo nel libro, vedo che sta sviluppando una sua indipendenza. È sereno, glielo leggo negli occhi.
Un elemento positivo...
La capacità di adattarsi è un fattore estremamente positivo, ma da non dare per scontato nelle persone autistiche. Per esempio, ora so che mangia certi cibi che con me rifiutava. Prima delle restrizioni da Covid, mi recavo tutti i giorni nella struttura per prendermi personalmente cura di Tony, e annotavo ciò che gli piaceva e ciò che lo disturbava, la routine a cui era abituato e come comportarsi in determinati momenti, così che il personale sapesse come relazionarsi a lui. Ora molte di quelle regole non valgono più: Tony si è adattato ai cambiamenti creandosi una sua nuova quotidianità.
Come tutti i figli che a un certo punto prendono la propria strada. Da genitore, come ti fa sentire?
Sono più tranquilla, perché vedo che ha cambiato il suo modo di essere diventando più libero di fare quello che vuole, e voglio credere che sia meglio così. È un po’ come vedere quello che sarà domani, il dopo di me di cui parlo nel libro: e tutto sommato non mi sembra così brutto.
Certo un futuro in una struttura dedicata come Eldorado sarebbe stato decisamente meglio. Un luogo pensato, progettato e costruito per rispondere alle precise esigenze di ragazzi come Tony e dei loro genitori, che volevano solo assicurare il migliore avvenire ai propri figli con determinate esigenze. Cosa è andato storto? C’è qualche speranza di far rivivere il progetto, prima o poi?
No, speranze non ce ne sono più. La fondazione Durante noi esiste ancora e sono io l’unica firmataria dello statuto perché non sono più riuscita a mettere insieme un consiglio di amministrazione. Era un progetto molto costoso, insieme all’architetto Roberto Perissinotto eravamo arrivati a un ottimo punto ma proprio in quel momento ci sono state le elezioni comunali e la nuova amministrazione, di segno opposto alla precedente, decise di annullarci i permessi. Provai a riprendere i contatti con i nuovi rappresentanti, ma tutto divenne più complicato. Dovetti anche lasciare la presidenza della fondazione per problemi personali e da lì il progetto è completamente naufragato.
Nel libro parli poco di tuo marito, eppure si percepisce chiaramente tutto l’amore che vi legava: qual è stato il suo ruolo nell’educazione di Tony?
Mio marito e io avevamo idee diverse sull’educazione di nostro figlio. Mi ha sempre aiutata, non esitava a prendere giorni di permesso dal lavoro pur di permettermi di seguire le cure necessarie a Tony. Se avevo bisogno, lui c’era. Ma era architetto, le sue linee erano già tracciate. Io mi occupavo invece di comunicazione del comportamento ed ero più malleabile. Per lui, Tony era capace di fare tutto ma non voleva farlo. Io sentivo che non era così.
Tornando al presente, invece, ora che la pandemia ha imposto severe restrizioni, come è cambiata la tua vita, hai più tempo per te stessa, dopo tanti anni dedicati a tuo figlio?
No, Tony è sempre al centro dei miei pensieri. E poi siamo in un periodo tale che non si può fare nulla! Vivo sul lago di Garda, posti meravigliosi, ma che non sono i miei. Ho lasciato la mia Milano per stare vicino a mio figlio, ma lì ho lasciato anche i miei amici, la mia vita di prima, e qui non ho nulla.
E allora come passi le tue giornate?
Come tutti, credo: chiusa in casa! Esco poco e solo per il necessario, non certo per godermi il tempo libero. Prima stavo dalla mattina alla sera con Tony, ora non posso più ed è un cambiamento radicale: le mie giornate sono piuttosto noiose.
Cosa pensi della gestione dell’emergenza in relazione alla situazione di disabili e persone con necessità particolari?
Che chi di dovere se n’è fregato altamente. Di tutto si sono preoccupati, meno che della disabilità. Apri, chiudi, apri, richiudi… mentre queste persone fragili vengono private dei propri diritti senza neanche sapere o capire il perché. D’altra parte, il Covid esiste ed è pericoloso, e certe misure sono necessarie. Un po’ mi fa rabbia, però almeno queste persone sono al sicuro. Tra noi genitori, c’è qualcuno che vorrebbe o avrebbe voluto togliere i propri figli dalla struttura e riportali a casa per la durata dell’emergenza, ma io non sono d’accordo, lo trovo rischioso. E allora mi adatto a stare lontano da Tony.
Cosa ne pensi di certe iniziative adottate in alcune strutture di cura, come per esempio le “camere degli abbracci” in cui i parenti possono abbracciare i propri cari in cura attraverso un velo plastificato? Le troveresti utili? Vorresti fossero più diffuse?
Sono state ideate diverse soluzioni per ovviare al problema del rispettare il distanziamento. A me, per esempio, avevano proposto di farmi entrare nella struttura dopo aver eseguito un tampone dal risultato negativo, per poter vedere Tony a distanza, mezz’ora, una volta a settimana e all’ingresso. Ma per mio figlio, autistico non verbale, sarebbe stato peggio. L’autistico ha bisogno del contatto fisico, di un certo tipo di contatto di fisico. E allora, visto che si sta abituando a questa nuova routine, preferisco non vederlo ma saperlo tranquillo.