Convegno Radicali: l'intervista all'ex Prima Linea Sergio Segio
Sergio Segio e la vicenda delle carceri di Torino e Asti
Sergio Segio è stato uno dei principali militanti di Prima Linea con il nome di battaglia di Comandante Sirio. È stato condannato alla pena definitiva di 30 anni anche per l’uccisione dei magistrati Emilio Alessandrini e Guido Galli e del vicebrigadiere Francesco Rucci. Ha scontato complessivamente 24 anni ed è stato l’ultimo di Prima Linea a uscire dal carcere. Da un quarto di secolo è impegnato nel volontariato, a partire dal Gruppo Abele di don Luigi Ciotti e nella difesa dei diritti umani. Tra le diverse attività è anche membro del direttivo nazionale dell’associazione Nessuno Tocchi Caino del Partito Radicale Transnazionale.
Negli ultimi mesi sta portando nelle carceri il docufilm Spes contra Spem del regista Ambrogio Crespi e ieri ha partecipato ad un dibattito a Roma presso il Partito Radicale Transnazionale dal titolo Carcere e diritti umani che ha visto la partecipazione di Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti, Sergio D’Elia, Irene Testa della presidenza del Partito Radicale Transnazionale, di Giandomenico Caiazza presidente dell’Unione Camere Penali, Rosella Santoro, Direttrice del Carcere di Rebibbia, Luigi Giannelli, Ispettore Capo del Carcere di Rebibbia, Irene Testa, Segretario Associazione Il Detenuto Ignoto e la moderazione di Andrea De Angelis.
D: Segio, che cosa è accaduto nella sua visita nelle carceri piemontesi di Torino ed Asti?
R: Ci siamo recati a diversi eventi promossi dal Garante per i detenuti del Piemonte Bruno Mellano per incontrare detenuti e operatori e presentare Spes contra Spem. La mia presenza è stata criticata dal procuratore capo di Torino, Armando Spataro, che ha richiesto alla direzione del carcere torinese di ricevere le carte riguardanti la visita e ai vertici dell’amministrazione penitenziaria di interpellare i capi delle Procure prima di autorizzare all’ingresso in carcere «ex terroristi responsabili di gravi reati». È un’iniziativa senza precedenti, «di cui non si comprende il fondamento giuridico e la legittimità» secondo Nessuno Tocchi Caino e Partito Radicale; una valutazione che mi trova del tutto concorde.
D: Vi è stata in effetti una protesta non solo del magistrato, ma anche da sindacati di polizia carceraria che hanno diramato un comunicato…
R: La giudico del tutto strumentale e pretestuosa, tanto più che nel dicembre del 2002 ho firmato un comunicato congiunto con i segretari dei diversi sindacati di polizia penitenziaria, compreso quello che oggi mi attacca, sui problemi del carcere e a favore dell’indulto, in presenza dell’allora sottosegretario alla Giustizia Michele Vietti. Allora, evidentemente, la mia presenza al ministero e nelle carceri non destava scandalo e indignazione.
D: Al dibattito di Roma lei ha citato un’inchiesta della RAI del 1969 in cui il giornalista Emilio Sanna fotografava la situazione carceraria di allora, in cui il detenuto medio risultava di “basso grado di istruzione, disoccupato o lavoratore dipendente, in prevalenza meridionale”. È cambiata la situazione?
R: Affatto. Basta aggiungere gli immigrati e i tossicodipendenti e la fotografia è la stessa. Il carcere è una istituzione che, oggi quanto nel passato, serve prevalentemente per il controllo delle “classi pericolose”, come ben argomenta Nils Christie ne Il business del penitenziario - La via occidentale al Gulag.
D: Lei dà quindi una interpretazione sociologica dell’istituto carcerario, cioè che strumento di controllo dello Stato. In questa sua visione che effetti produce il carcere?
R: Controllo, esclusione sociale e, appunto, business. Gli effetti sono quelli che descriveva Sanna: «la nullificazione dell’individuo», il quale avrà poi solo un’alternativa: «o mettersi in disparte come un rottame o reagire alla violenza con la violenza» e quindi tornare poi in carcere. Io da molti anni pratico una terza via: quella che mi ha insegnato Marco Pannella, cioè la nonviolenza e il mettere a frutto la mia esperienza per dare un contributo al cambiamento e alla umanizzazione della pena.
D: La sua battaglia contro l’ergastolo è anche una battaglia contro quello che lei definisce “ergastolo bianco e della parola” espressione di una “cultura vendicativa e incostituzionale”. Come si è formato questa convinzione?
R: Mi pare un dato obiettivo, che si rivolge contro di me, come in questa occasione, così come contro molti altri nel corso degli anni. Del resto basta leggere le parole, e la preoccupante cultura che ne traspare, del comunicato del Sappe, secondo cui chi è stato condannato per gravi reati, dopo aver scontata la pena «dovrebbe nascondersi ed essere espunto dalla società civile».