Matteo Renzi, meno male che Silvio c'è
Anche con il solleone di metà luglio la politica si muove. Non è quella delle masse, con i cittadini in rivolta come nel luglio 1960, quando la polizia a Reggio Emilia aprì il fuoco uccidendo cinque operai in piazza contro il governo Tambroni (Dc-Msi) costretto poi a dimettersi evitando una nuova guerra civile. Questa è la politica del Palazzo, che non si confronta in Parlamento, che trama e congiura in privato, nei caminetti spenti, nelle ville con l’aria condizionata sparata, fra un tweet e un selfie. Il convitato di pietra è l’italiano deluso e disorientato, l’iceberg di quel 54 per cento che ha disertato le urne alle ultime amministrative, capace di fare la “rivoluzione” standosene semplicemente a casa alle prossime elezioni politiche. Il vento dell’antipolitica soffia più forte che mai.
La gente chiede svolta e volti nuovi. Mao, per salvare il suo comunismo e soprattutto il suo potere inventò la “rivoluzione culturale”, una perversa e micidiale “rottamazione” anche contro le ombre, con umiliazioni e assassinii indicibili. La Democrazia Cristiana, contro il logorio del potere, preferiva la “roteazione” alla “rottamazione” facendo sua la linea togliattiana del “rinnovamento nella continuità”. Dopo il crollo delle ideologie e dopo lo tsunami di tangentopoli e lo sfarinamento delle grandi forze politiche, nell’era di internet e dei partiti padronali e personali, nel centrodestra Berlusconi ha usato partito e istituzioni come proprie aziende e dirigenti ed esponenti istituzionali come suoi dipendenti mentre nel centrosinistra Renzi ha fatto la sua crociata del nuovismo liberandosi con la “rottamazione” di compagni scomodi e della storia – anche ingombrante – della vecchia sinistra.
Complice anche una crisi internazionale devastante, il nostro Paese si è impantanato, con la politica incapace non solo di tracciare la rotta nei marosi della globalizzazione ma anche di governare alla giornata. Così, per la crisi dei due schieramenti storici di centro-sinistra e centro-destra, il primo partito è quello dell’astensione e – fra chi vota – è o rischia di diventare, il M5S di Grillo. Ma in politica niente è fermo. Alle ultime comunali, solo un test ma significativo, il centrodestra dato per morto, torna in campo e vince non solo perché un redivivo Berlusconi di basso profilo e sotto tono, fuori dai riflettori, fa da chioccia ai pulcini sbandati tracciando un percorso unitario e recuperando una (piccola) parte dell’elettorato moderato ma soprattutto per mancanza e per debolezza degli avversari.
Il Partito democratico fa pagare al Paese le proprie divisioni e le proprie incapacità programmatiche tenendo il governo in sospeso in funzione degli interessi politici di Renzi inchiodato nell’idea fissa dell’uomo solo al comando, per tornare a Palazzo Chigi. Il M5S, dopo il fallimento della prova del budino con il flop del governo capitolino abbaia ma non morde, restando un movimento oligarchico, populista e protestatario. A sinistra del Pd, in nome dell’antirenzismo senza frontiere (il bis dell’antiberlusconismo), è in corso l’ennesimo tentativo di quadratura del cerchio: un fallimento annunciato per l’impossibilità di unire le troppe anime e i tanti galli e galletti in campo, comandanti di battaglie perdute e senza truppe. Il tentativo unitario del pur volenteroso Pisapia non ha spinta e l’annuncio di non candidarsi al Parlamento alle prossime politiche non è disimpegno ma rischia di apparire come una dichiarazione di resa.
Al di là della legge elettorale con cui presto si voterà per le politiche il Pd renziano del “faccio tutto io e faccio tutto da solo”, il partito a vocazione maggioritaria del 40%, ha imboccato la via di una sconfitta pesante quanto annunciata. Idem per quella sinistra che tenta di riverniciare le vecchie insegne rimanendo se stessa a caccia del nemico di turno, stavolta Matteo. E sull’altro fronte? La destra-destra sa sola non vince. Vince un nuovo centrodestra se Berlusconi ricuce i vari pezzi, rinnova il contenitore, rispolvera i contenuti puntando su un progetto politico credibile, possibile, moderato e se soprattutto “deberlusconizza” il suo partito e la sua nuova alleanza, se lancia davvero una nuova leadership.
Leader in carne e ossa cercasi, autentici e credibili, non pre confezionati in uno studio tivù, dal feeling con il “famoso” popolo che non è più massa ma il cittadino singolo armato di smartphone che vive con ansia la quotidianità senza certezze, da interpretare e tradurre politicamente. I delfini di Berlusconi non hanno mai avuto lunga vita. L’ex Cav non ha eredi perché non li vuole. E clonare un Berlusconi politicus non si può. I nomi fatti circolari ultimamente, fino a quello di Marchionne, sono solo un diversivo. Così come diversivi sono i contatti-meeting del rais di Arcore con gli alleati, ultimo quello con Maroni, fatto apposta per dare un segnale a Salvini.
Silvio gioca a nascondino, lancia messaggi, disorienta amici e nemici. A Berlusconi non servono i gradi sulla giubba per presentarsi come leader di partito o di schieramento. Per ora l’ex premier gioca a tutto campo, conta le penne che Renzi lascia strada facendo sapendo che con un Matteo sfiancato e spennato e un Pd depotenziato alle elezioni si tratta meglio per un unico esecutivo possibile dopo il voto: il “governissimo” Pd-Forza Italia. Ma c’è tempo. E le urne a novembre in Sicilia (e forse in Lombardia) possono sciogliere altri nodi. Intanto sul trapezio c’è Renzi, ostinato a fare tutto da solo esaltato dai fan. E dal trapezio si può finire in padella. Peggio, dalla padella alla brace. Sarà Silvio a salvarlo?