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24 marzo 1944: così i nazisti, con la complicità dei fascisti, trucidarono le 335 vittime delle Fosse Ardeatine
Attraverso un macabro cerimoniale, in una notte diedero esecuzione all’infame vendetta per l’attentato di Via Rasella. Il commento



24 marzo 1944: così i nazisti, con la complicità dei fascisti, trucidarono le 335 vittime delle Fosse Ardeatine
Abbiamo letto, studiato, ma ahimé, abbiamo anche un po’ dimenticato o quanto meno accantonato con superficialità, quanto accaduto fra il 23 e il 24 marzo 1944 a Roma. La Capitale costituzionale di un’Italia martoriata da una guerra feroce e crudele era rimasta “città aperta” mentre, sul territorio di una penisola divisa a metà, il governo ufficiale e il potere legislativo si erano trasferiti a Salerno e la stessa residenza reale di Vittorio Emanuele III aveva trovato sistemazione nella civettuola Villa Guariglia di Raito, frazione di Vietri sul Mare, e a Villa Episcopio di Ravello, entrambe in Costiera Amalfitana.
In Via Rasella, nel pomeriggio del 23 intorno alle ore 16,00, transitarono soldati dell’esercito tedesco del reggimento di polizia “Bozen”. Era una compagnia composta da circa 150 uomini altoatesini, in quanto arruolati nella provincia di Bolzano che era passata sotto il controllo tedesco. Il loro era un percorso quasi quotidiano, in quanto al mattino abitualmente i soldati si recavano al poligono di tiro di Tor di Quinto e nel pomeriggio rientravano nella loro sede del Viminale. Il loro passaggio era pressoché scontato e quindi invitante per un attacco da parte delle forze partigiane e di resistenza antifascista e antinazista.
Dopo la proclamazione di Roma “città aperta” e l’armistizio dell’8 settembre, i tedeschi avevano comunque conservato una posizione di totale controllo sulla Capitale, annettendola alla Repubblica Sociale Italiana. Forte era stata l’azione di repressione rivolta agli antifascisti, che intanto si erano organizzati nel Comitato di Liberazione Nazionale, ma anche in gruppi più oltranzisti e attivi nelle azioni di guerriglia, i cosiddetti Gruppi di Azione Patriottica (GAP). Da uno di questi ultimi partì il piano dell’attentato di via Rasella.
La via è una strada stretta e in salita, quasi parallela a Via del Tritone e collega il Traforo con Via delle Quattro Fontane. I soldati del “Bozen” trovarono ad attenderli un carrettino dell’immondizia riempito con diversi chili di tritolo ed altro esplosivo. Nell’attentato morirono sul colpo 32 soldati altoatesini e diversi altri rimasero feriti. La reazione tedesca fu violentissima e immediata, dopo aver informato direttamente Hitler a Berlino. Senza mezzi termini fu decisa la soppressione di 10 italiani per ciascun soldato nazista rimasto ucciso.
Non fu facile anche per i nazisti ed i fascisti che li affiancavano trovare in poche ore 320 persone da giustiziare. Fu il colonnello Herbert Kappler, capo della Gestapo a Roma, col suo aiutante capitano Erich Priebke, a realizzare la lista dei condannati e fu un’attività frenetica che condusse per tutta la notte, coadiuvato tra gli altri dal questore fascista Caruso. Furono rastrellati antifascisti nel carcere di Via Tasso, ebrei destinati alla deportazione, detenuti politici in questura, persone che si aggiravano per via Rasella al momento dello scoppio. Il giorno dopo, a operazione di rastrellamento quasi completata, giunse la notizia della morte di uno dei feriti tedeschi, che fece salire il bilancio dell’attentato a 33 vittime. Una complicazione in più: erano da aggiungere altri 10 italiani e la rappresaglia doveva essere portata a 330. Altra ricerca frenetica e alla fine il totale risultò addirittura di 335 uomini: 5 in più rispetto alla misura prevista. Poco male per gli SS nazisti, si trattava solo di 5 vite umane in più da sopprimere, rispetto ad una proporzione già di per sé assurda e criminale.
A questo punto furono soddisfatti i nazisti di stanza a Roma, potevano dare ampie assicurazioni al loro Führer che la rappresaglia sarebbe stata compiuta entro 24 ore dall’attentato. Azione esemplare!
Ma bisognava ancora individuare il luogo della carneficina ed anche i militari che fossero disposti ad eseguirla, per quanto disciplinati e fedeli agli ordini come i soldati tedeschi. Con un rapido sopralluogo furono visionate in gran fretta alcune cave sotterranee abbandonate in via Ardeatina. L’operazione doveva avvenire in gran segreto, per evitare reazioni da parte della popolazione. Della serie: andiamo, sbrighiamo la pratica e nascondiamo tutto.
Per la modalità dell’esecuzione poi fu costruito il dovuto protocollo militare. I condannati dovevano essere raccolti entro una certa ora all’interno delle cave. Alla luce di torce elettriche, a gruppi di cinque venivano portati in un punto dove il capitano Priebke verificava e spuntava i nominativi da una lista, poi venivano fatti inginocchiare e l’esecuzione avveniva con un colpo alla nuca. Tempo previsto: 1 minuto a operazione.
Rimane agghiacciato il cerimoniere a ripensare a questa sequenza, a immaginare come furono eseguiti i sopralluoghi, stabiliti i percorsi, i movimenti, le modalità, l’applicazione pratica di questo disumano protocollo, a ragionare sul calcolo effettuato per determinarne i tempi: 1 minuto per 335 uomini; 5 ore e 35 minuti al massimo per completare il programma, cercando, se possibile, di accelerare un po’, perché magari gli ufficiali avrebbero potuto stufarsi per il dilungarsi delle operazioni. Stabilire l’orario d’inizio, scandire le sequenze, verificarne l’attuazione, ovviare agli inconvenienti, concludere l’operazione nel rispetto delle previsioni. C’è protocollo e protocollo, ma la costruzione pratica di quel cerimoniale per un addetto ai lavori tecnicamente non deve essere stata molto diversa dal solito, indipendentemente dall’oggetto dell’evento e dalla cinica crudeltà che lo pervade. Dio mio!
Di fatto non mancarono le difficoltà a complicare le operazioni. Qualche esecutore, tutto sommato poco avvezzo alle armi e più a suo agio con pratiche di ufficio, ebbe delle remore ad espletare e andava sostituito; le esecuzioni, che dovevano essere “chirurgiche”, con un colpo secco da provocare la morte immediata, non furono così perfette e non tutti perirono istantaneamente, con conseguenti “fastidiosi” strascichi per completare a regola d’arte l’impresa; i cadaveri cominciavano ad accatastarsi e a occupare troppo spazio all’interno delle cave, tanto che a un certo punto si dovette continuare salendo sull’ammasso dei corpi che man mano cresceva; qualche condannato, nel capire il destino cui andava incontro, provò a ribellarsi, provocando reazioni violente e situazioni convulse; 50 condannati promessi dalla questura mancavano ancora all’appello ad operazioni iniziate, provocando preoccupazione ed ansia da parte dei carnefici, finché il loro arrivo non riportò la serenità fra gli aguzzini.
E alla fine quel conto che non tornava nella contabilità generale: “5 in più, che ne facciamo?” “Sopprimiamoli, hanno visto troppo!”. Dio mio!
Registrazione finale dei tempi: inizio alle ore 15,30, conclusione alle ore 20,00. Un’ora in meno rispetto alle previsioni. Immagino la soddisfazione dell’addetto al protocollo. Dio mio!!!
Ma non finiva lì, bisognava completare l’opera: le cave furono fatte saltare in aria con le mine per inibire gli accessi e non lasciare tracce. La notte del 24 marzo si chiudeva così, con nuove esplosioni sull’Ardeatina ed enormi massi e detriti che crollavano su 335 corpi accatastati alla meglio. Seguì uno scarno comunicato tedesco per chiosare la vicenda dell’attentato di via Rasella, che si concludeva in questo modo: “(…) per ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati. L'ordine è già stato eseguito".
Operazione esemplare dal punto di vista dei nazisti.
Ogni anno lo Stato repubblicano prevede nella seconda metà di marzo le celebrazioni presso il Mausoleo delle Fosse Ardeatine, diventato monumento contemporaneo posto a memoria di questa orribile vicenda. Partecipa in forma ufficiale il Presidente della Repubblica, accompagnato dalle più alte cariche dello Stato e dai rappresentanti della Chiesa cattolica e della religione ebraica. Ed è presente l’ANFIM, l’Associazione nazionale famiglie italiane martiri, impegnata civilmente nel ricordo delle vittime delle stragi compiute durante la seconda guerra mondiale e in particolare nel corso dell'occupazione dell'Italia centro-settentrionale da parte dei tedeschi e della Repubblica sociale.
La cerimonia consiste nella deposizione di una corona d’alloro da parte del Capo dello Stato, con la resa degli Onori ai Caduti, gli interventi di rito delle Autorità e l’appello dei nomi delle vittime dell’eccidio. Segue una visita all’interno delle cave e del Sacrario.
Per il cerimoniere ogni anno varcare il cancello del Mausoleo provoca un’enorme emozione. Ogni volta la mente va alla tragica sequenza di avvenimenti che portarono all’eccidio e, grazie a Dio, il cuore non prova assuefazione alla normalità del male che attraversa la storia dell’umanità. Ben vengano, sempre, rifiuto, ribellione, ribrezzo verso le atrocità che l’uomo è capace di perpetrare.
Il Sacrario comprende anche un Sepolcreto: sono allineate su 7 doppie file di 48 sepolture (24 per lato), i 335 sepolcri delle vittime, più una tomba, la prima, dedicata a tutti i Caduti per la Patria e per la Libertà. La copertura del Sepolcreto è costituita da una sorta di grande pietra tombale che simbolicamente intende rievocare l'oppressione e l'occultamento delle vittime. Su 332 tombe è riportato il nome di ciascun trucidato. Le rimanenti tre recano la scritta “Ignoto”, trattandosi di resti ai quali non si è riusciti ad attribuire un’identità. Non ancora almeno, perché proseguono le ricerche e l’impegno del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti del Ministero della Difesa (Onorcaduti) e dell’ANFIM per recuperare la dignità di persona anche a rimanenti corpi non identificati.
Il turbinio di sensazioni del cerimoniere è alimentato anche da fattori personali. Tra le vittime delle Fosse Ardeatine c’è il concittadino Sabato Martelli Castaldi, come me di Cava de’ Tirreni, che fu generale di brigata della Regia Aeronautica e successivamente partigiano col nome “Tevere”. Fu arrestato dai tedeschi e rinchiuso nel carcere di Via Tasso. La sua vicenda è ben descritta in un interessante libro realizzato dallo storico Mario Avagliano (“Il Partigiano Tevere” - Avagliano Editore 1996). Nella cella n.1 che lo ospitò per circa un mese subendo atroci torture, lasciò, prima di essere prelevato e aggregato all’eccidio, la seguente iscrizione:
"Quando il tuo corpo
non sarà più, il tuo
spirito sarà ancora più
vivo nel ricordo di
chi resta. Fa' che
possa essere sempre
di esempio"
Una frase che ti martella le tempie!
Ogni volta che accedo al Sepolcreto lancio un’occhiata alla tomba del generale Martelli Castaldi e dentro di me esprimo il senso di vicinanza della mia terra nei confronti del martirio e del sacrificio di un suo figlio.
Lo stesso Mario Avagliano, insieme al coautore Marco Palmieri, ha raccolto in un unico volume tute le storie della vita e della morte delle vittime di quella orrenda strage (“Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine”, Einaudi 2024).
Un altro collegamento personale si ripropone alla vicenda delle Fosse Ardeatine. E’ una storia meno conosciuta che Giovanni Giudicianni, un mio carissimo amico e collega di lavoro scomparso, ha descritto in un suo lavoro (“Voci della Storia - Vicende e testimonianze della Strage nazista di Bellona” – 2013). Nell’ottobre del 1943 a Bellona, piccolo comune del casertano, pochi giorni dopo l’armistizio, i tedeschi reagirono violentemente all’uccisione di un loro soldato, dico uno, conducendo con l’inganno all’interno di una vecchia cava ben 54 cittadini inermi e trucidandoli con le stesse modalità che furono poi adottate alle Fosse Ardeatine. Anche in quel caso la cava fu poi fatta saltare in aria per cancellare le tracce.
Un’anticipazione della crudele esecuzione romana, paradossalmente più efferata e assurda sia per la scelta delle vittime, tutti civili ignari, sia per il rapporto di 54 a 1, molto più spropositatamente alto rispetto ai 10 a 1 che portò all’uccisione dei 335 civili e militari il 24 marzo 1944.
Viene da pensare, uscendo al termine del rito annuale a cui il cerimoniere partecipa: quante vite spezzate come quella di Sabato Martelli Castaldi, quante Bellona e Fosse Ardeatine si sono succedute nella tragica storia della seconda guerra mondiale, che noi non conosciamo e sono rimaste più o meno occulte o dimenticate. E quante ancora oggi si verificano, in termini ugualmente cruenti se non di più, negli scenari di guerra dell’Ucraina, della Palestina, della Siria, della Libia, del Myanmar, del Maghreb, del Sahel, del Sudan e di tutti i territori perennemente in conflitto (si contano 56 conflitti in corso nel nostro mondo martoriato).
Serve la Memoria? Imparerà mai l’uomo a vivere in pace? Domande angoscianti, con un’unica certezza: sì, la Memoria serve, altroché se serve; è indispensabile! E non dovrà mai più essere sepolta e occultata come con le mine delle cave ardeatine.
Tratto da “Non facciamo cerimonie – A spasso nelle vicende del protocollo di Stato” di Enrico Passaro – Editoriale Scientifica Napoli – 2020.
* Enrico Passaro, già responsabile dell'Ufficio del Cerimoniale di Stato e per le Onorificenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che ha visto sfilare a Palazzo Chigi ben sette premier, da Silvio Berlusconi a Mario Draghi, passando per Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte. Membro del Comitato consultivo della Fondazione OMRI per il Cerimoniale Istituzionale.