Palazzi & potere
Brexit, qualcosa si muove
Le linee guida del Consiglio europeo sui negoziati, un White Paper su come trasformare la legislazione europea in britannica e, soprattutto, l’attivazione formale del processo di separazione dall’Unione: dopo mesi di confusione e inerzia, sembra che qualcosa si stia effettivamente muovendo per la Brexit. Non a caso, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha commentato su Twitter con humor quasi britannico: “After nine months the UK has delivered. #Brexit”
Tutto questo rischia però di essere uno shakespeariano tanto rumore per nulla, con Theresa May decisa nell’apparenza e in confusione sulla sostanza, l’Ue ancora inflessibile su punti chiave delle trattative e, di conseguenza, un destino incerto su temi centrali, dai termini della relazione GB-Ue dopo la Brexit fino alla possibilità, sempre più reale, dell’indipendenza scozzese. Tutto questo con il rischio che i due anni di negoziati si concludano senza un accordo.
La posizione dell’Ue
Dopo mesi di silenzio, la risposta del Consiglio europeo all’attivazione dell’articolo 50 non si è fatta attendere; due giorni dopo aver ricevuto la notifica, Donald Tusk ha inoltrato ai 27 Stati membri le linee guida per le trattative, sottolineando posizioni già note, ma con qualche novità.
Il punto fondamentale è la conferma dell’impossibilità di un approccio ‘cherry picking’, in cui cioè il Regno Unito possa scegliere su quali settori collaborare con l’Ue e su quali mantenere le proprie prerogative. Un desiderio già espresso da Theresa May in numerose occasioni, come nel discorso di gennaio in cui parlava di contribuzioni ad hoc al budget europeo, ma inaccettabile per l’Ue: le linee guida ribadiscono che il libero commercio non possa essere svincolato dalla libera circolazione delle persone e che l’accordo non possa riguardare solo alcuni settori selezionati.
Il documento va però oltre, sostenendo che non ci sarà nessun accordo sulla posizione del Regno Unito rispetto all’Ue finché non sarà raggiunto “sufficient progress” sul processo di uscita; in altre parole, nessun accordo sul commercio finché i termini di uscita non saranno concordati in maniera soddisfacente, con l’Ue27 a giudicare se essere soddisfatta o meno.
L’incertezza del Regno Unito
Di fronte alla decisione europea, il governo britannico soffre ancora di grande insicurezza, incapace di trovare un compromesso tra garantire un accordo negli interessi del Regno Unito, per cui dovrebbe avvicinarsi all’Ue, e tenere una posizione solida di fronte all’elettorato britannico. Se Donald Tusk parla di damage control nel processo della Brexit, la retorica della May evita invece di presentare la Brexit come un errore, indicandola piuttosto come un’occasione per il Regno Unito.
Lato britannico, il cuore del processo di separazione è il Great Repeal Bill, approfondito in un White Paper presentato la scorsa settimana e che dovrebbe garantire la transizione dalla legislazione europea a quella britannica. Gli oltre 12mila regolamenti europei in vigore nel Regno Unito richiederebbero però un processo di integrazione mastodontico e anni di lavoro; il Great Repeal Bill rischia così o di essere un Great Conversion Bill, in cui il corpus europeo verrà semplicemente incorporato in maniera quasi integrale, o di seguire un processo di selezione della legislazione arbitrario e in cui il Parlamento non verrà coinvolto.
Theresa May intende infatti utilizzare i poteri conferiti al governo dallo “Statute of Proclamations” del 1539, per cui il governo può legiferare (in maniera limitata) al di fuori nel normale processo di scrutinio parlamentare.
I nodi da sciogliere
Se non è chiaro quale sarà il risultato del Great Repeal Bill, difficile è anche definire in che modo il Regno Unito affronterà altri punti chiave della questione Brexit. Se Ue e GB hanno concordato che Londra dovrà pagare un exit bill per l’uscita dall’Unione, è difficile dire se e quanto si avvicinerà ai 60 miliardi di euro di cui si parla a Bruxelles. Inoltre, secondo un report del governo britannico rivelato dal Guardian, l’alternativa all’impossibilità di un accordo sul commercio con l’Ue dovrebbe essere l’aumento del 37% del commercio con gli altri partner in 13 anni – una missione difficile, se non impossibile.
I problemi principali sono però legati alle questioni interne al Regno Unito, soprattutto ai governi regionali. Con questi la May ha infatti mancato la possibilità di costruire un dialogo fruttuoso, piuttosto suscitando preoccupazioni in Irlanda del Nord e scatenando la decisione del primo ministro scozzese Nicholas Sturgeon di chiedere formalmente un secondo referendum per l’indipendenza, approvato dal parlamento scozzese ma, al momento, rifiutato dal governo britannico.
È la Scozia così la vera spada di Damocle per Londra. Il rifiuto da parte di Theresa May di concedere un secondo referendum nei prossimi anni (sicuramente non prima del termine delle trattative) evita da un lato l’esposizione del governo su un ulteriore fronte politico, ma concede un significativo vantaggio alla Scozia e all’Unione europea: offre tempo per potere costruire sostegno al referendum, per ora non particolarmente forte in Scozia, lavorando proprio sull’opposizione di Londra a quella che è la volontà del popolo scozzese, espressa tramite il parlamento di Edimburgo.
Una minaccia che Bruxelles non ha aspettato ad utilizzare, con la recente conferma da parte del ministro degli Esteri spagnolo che Madrid non porrà il veto ad un’eventuale domanda di adesione alll’UE da parte di una Scozia indipendente. Un cambiamento di linea probabilmente garantito dal sostegno Ue alla posizione spagnola su Gibilterra, espresso anche nelle linee guida di Tusk.
Il Regno Unito si trova così di fronte a una serie di minacce, a cui si aggiunge quella di non concludere nessun accordo: una possibilità reale visti i tempi stretti e le materie da discutere. Con il rischio conseguente di vedere la City lentamente abbandonata a favore delle piazze europee, la Scozia indipendente e l’Irlanda del Nord di nuovo sotto assedio, Londra dovrà quindi forse trovare il coraggio di mettere da parte la retorica degli ultimi mesi e rassegnarsi al dialogo con l’Unione.
Lorenzo Colantoni