Tutela della Proprietà Intellettuale, Italia ferma al 49° posto
In materia di tutela della proprietà intellettuale l’Italia non brilla e guadagna nel 2017, un infelice 49° posto all’interno dell’International Property Rights Index. L’Indice, che Competere presenta dal 2007 e che misura la diffusione dei sistemi di tutela in materia di diritti di proprietà fisica ed intellettuale, è uno strumento fondamentale per comparare il grado di protezione con la capacità di ciascuna regione di produrre innovazione ed essere competitiva sul mercato globale.
Il 49° posto dell’Italia nel 2017, accentua un drammatico crollo di 9 posizioni rispetto al 2014. Non solo siamo lontani dai paesi che innovano e competono al meglio, come la Svizzera, Svezia, Finlandia, Norvegia e Lussemburgo, ma rimaniamo indietro anche a paesi che hanno una capacità di innovazione non propriamente spiccata come Belgio, Malta ed Austria.
Sfortunatamente il tentativo di ricucire il gap normativo con l’introduzione del Patent Box – il sistema fiscale opzionale per i redditi derivanti dall’utilizzo dei diritti di proprietà intellettuale – non ha portato rilevanti miglioramenti nel quadro italiano. In linea generale, un sistema di incentivazione fiscale per i redditi derivanti dall’uso dei diritti di proprietà intellettuale ha lo scopo di dissuadere il fenomeno diffuso della registrazione dei diritti IP, soprattutto per quanto riguarda i brevetti, a nome di società stabilite in paesi con un regime fiscale particolarmente favorevole. Il Patent Box non ha centrato l’obiettivo: non ha incoraggiato e favorito gli investimenti in ricerca e sviluppo, non ha reso attrattivo il sistema italiano per gli investitori internazionali e non ha permesso la ricollocazione dei beni immateriali detenuti all’estero.
L’Italia deve valutare il rapporto costo-opportunità tra la funzione obiettivo, tesa verso una maggiore competitività di sistema, ed il vincolo dato dalla conformità alle regole imposte dall’OCSE. Se questo è lo stato dell’arte, il regime di Patent Box assume il profilo di un’architettura complessa, troppo sofisticata e con poca sostanza per buona parte del sistema produttivo italiano. Motivo per cui rispetto al 2016 l’Italia ha guadagnato appena una posizione nella classifica IPRI, non scalando le vette.
Esistono, tuttavia, problemi molto più radicati nel sistema paese. Da un punto di vista normativo le regole non mancano, però non vengono applicate: il livello di contraffazione è indice di grande vitalità imprenditoriale, sebbene illegale, ma è poco perseguito. La giustizia è il punto debole del nostro paese, anche in materia di diritti di proprietà, civile e penale. La competizione, la produzione e il commercio di beni e servizi si sono allargati al mercato globale. Su questo terreno, nonostante gli sforzi dell’Unione europea o delle agenzie internazionali, c’è grande confusione regolamentare e poca possibilità di tutelare i propri player. In quest’ottica le PMI italiane fanno sempre più fatica a tutelare marchi e brevetti a livello mondiale. Se le multinazionali hanno competenze e risorse per farlo, le piccole e medie imprese arrancano. Infine, esiste una forte carenza manageriale che si scontra con quel totem monolitico che è la burocrazia italiana. Le PMI che dovrebbero immettere sul mercato prodotti unici conferiscono scarsa attenzione con la valorizzazione e finiscono per scontrarsi con le fitte maglie della burocrazia.
Oltre alle regole dunque, servono delle politiche chirurgiche che rendano il nostro Paese attrattivocirca la tutela della proprietà intellettuale (garanzie ed incentivi), ma servono anche strumenti che accompagnino le nostre imprese all’estero. La competizione nel mercato globale si vince con l’innovazione e quindi con prodotti e servizi unici che in quanto tali devono essere tutelati.
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Benedetta Fiani