Politica

Pd, addio campo largo: servono sfide identitarie, anche dall’opposizione

Di Lorenzo Zacchetti

Le posizioni del M5S mettono in crisi il progetto di alleanze dei Dem, che ora devono cambiare radicalmente lstrategia

Già complicata da considerazioni politiche, l'ipotesi del "campo largo" è bocciata dai numeri

 

Il Pd è sempre più il partito di Mario Draghi, ma, dopo un decennio abbondante nel quale i Dem hanno giocato il ruolo dei responsabili pronti a tutto per senso delle istituzioni, serve davvero una nuova strategia. Il punto di svolta non ha nulla a che fare con le vicende interne del partito di Enrico Letta, bensì con le vicissitudini dell’alleato principale: quel Movimento Cinque Stelle che ha vestito l’abito del promesso sposo, ma poi non si è mai presentato all’altare. La tanto annunciata “alleanza strutturale” che doveva far seguito all’esperienza del Conte 2 ha avuto una gestazione di quasi tre anni, per poi sfociare in un aborto spontaneo. La scelta grillina di non votare la fiducia al governo Draghi ha allontanato le speranze residue (posto che ve ne fossero), ma soprattutto sono i numeri a riportare il Pd con i piedi per terra. 

La sintesi effettuata da Termometro Politico sui sondaggi nella settimana dal 10 al 16 luglio conferma il dualismo tra Fdi e Pd, che si contendono il ruolo di primo partito italiano ottenendo entrambi il 23,2% dei consensi. Un buon risultato per Letta, che tiene botta di fronte alla travolgente ascesa di Giorgia Meloni, ma il quadro delle coalizioni è impietoso. Nel centrodestra non vivono il loro miglior momento ne’ la Lega (14,8%), ne’ Forza Italia (8,3%), ma nel complesso il rassemblement totalizza un notevole 46,3%

Come può fare il centrosinistra a pareggiare il conto? Il più volte evocato “campo largo” potrebbe nascere solamente appiattendo le notevoli divergenze tra i suoi membri papabili, poiché è molto difficile immaginare una pacifica convivenza tra Conte, Matteo Renzi e Carlo Calenda, per nominare solo i casi più eclatanti. Anche dando per assodato che Letta riesca nella delicatissima opera di ricucitura, la somma dei voti non è sufficiente: il M5S è accreditato dell’11% dei voti, il cartello Azione/+Europa del 4,8% e IV appena del 2,4%, per un totale del 41,4%. Siamo davvero lontani dal potenziale 46,3% del centrodestra, quindi non resta che provare ad allargare lo scenario puntando a un altro cartello, quello di recente formazione tra Sinistra Italiana e Verdi, quotato intorno al 3,7%. Anche in questo caso, ci sono delle evidenti difficoltà politiche: se Letta è il draghiano numero uno, Nicola Fratoianni si è invece schierato all’opposizione come unica forza progressista, nell’inedita compagnia di Fratelli d’Italia. E tuttavia, anche riuscendoci, il fantomatico “campo largo” starebbe al 45,1%, ancora staccato dai propri rivali di centrodestra. 

Bisogna quindi necessariamente andare a pescare nel calderone degli “altri partiti”, che valgono complessivamente intorno all’8,6%. Il problema è che questo gruppo è veramente molto eterogeneo. Al suo interno ci sono forze vicinissime al Pd, come Articolo 1, che vale intorno al 2,3%, e il nuovo partito di Luigi Di Maio, ancora non quotato nemmeno dai sondaggisti. Poi ci sono piccole realtà come Italexit di Gianluigi Paragone (2,5%) e Noi con l’Italia di Maurizio Lupi (1%), che però paiono più vicini alle posizioni del centrodestra. Tutta da definire la sorte di Coraggio Italia (di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro), che guarda a un progetto centrista che potrebbe attirare anche potenziali “cespugli” del centrosinistra, sconfortati dall’analisi dei numeri.

Forse sarebbe il caso che anche il Pd prendesse atto del fatto che l’ipotesi del "campo largo" è tramontata (così come era successo al quasi omonimo “campo progressista” di Giuliano Pisapia) e che l’esito elettorale è segnato, a meno che il centrodestra non paghi il prezzo di mai sopite tensioni interne e si presenti diviso alle prossime elezioni. Dovesse giungere questo regalo di Natale anticipato, si potrebbe puntare all’ennesimo risultato interlocutorio, per poi fare i conti sui seggi effettivamente conquistati in Parlamento e arrivare a un nuovo governo di unità nazionale, con alla guida lo stesso Mario Draghi o un profilo simile di civil servant lontano dalla tenzone partitica. 

L’altra ipotesi, decisamente più probabile, è che ci si avvii alla nascita di un governo di centrodestra, del quale il Pd potrebbe essere la principale forza di opposizione, ruolo nobilissimo e talvolta persino gratificante. Se Letta accettasse questa prospettiva, potrebbe liberarsi dello scomodo ruolo di draghiano iperresponsabile e prepararsi a una campagna più identitaria, nella quale insistere con maggior forza sui provvedimenti-bandiera (dallo Ius Scholae al DDL Zan) e nel contempo ridefinendo in modo più logico e meno opportunistico il proprio perimetro di alleanze, nella consapevolezza che la politica è una ruota che gira e che stare lontano dalle stanze del potere può anche fare molto bene a medio-lungo termine, come peraltro insegna la stessa vicenda-Meloni.  

 

 

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