Politica
Stato-mafia, la Cassazione: "Berlusconi? Garantista, non intimidito dai clan"
"Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso da Cosa nostra è insussistente". Le motivazioni sulle assoluzioni
"Berlusconi? Garantista, non intimidito dai clan di Cosa nostra". Trattativa Stato-Mafia, le motivazioni della Cassazione sulle assoluzioni
La Corte di cassazione, ha depositato le 95 pagine di sentenza con le motivazioni alla base della decisione del 27 aprile scorso sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia.
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La Suprema corte ha confermato la decisione della Corte di assise di appello di Palermo nella parte in cui ha riconosciuto che negli anni 1992-1994 i vertici di “cosa nostra” cercarono di condizionare con minacce i Governi della Repubblica italiana (Governi Amato, Ciampi e Berlusconi), prospettando la prosecuzione dell’attività stragista se non fossero intervenute modifiche nel trattamento penitenziario per i condannati per reati di mafia ed altre misure in favore dell’associazione criminosa. Nei confronti di tutti gli imputati era stato contestato il reato di minaccia ad un corpo politico dello Stato (articolo 338 del Codice penale). La sentenza, riqualificato il reato nella forma tentata, ha dichiarato la prescrizione nei confronti di Leoluca Bagarella e Antonino Cinà in relazione alle minacce ai danni dei Governi Ciampi e Amato, essendo decorsi oltre 22 anni dalla consumazione del reato tentato.
Inoltre, ha escluso ogni responsabilità degli ufficiali del Ros, Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno – peraltro già assolti in appello sotto il profilo della mancanza di dolo – negando ogni ipotesi di concorso nel reato tentato di minaccia a corpo politico. Per quanto riguarda le intimidazioni nei confronti del Governo Berlusconi, di cui erano accusati Marcello Dell’Utri e Bagarella, la sentenza si è allineata a quanto deciso dalla Corte di assise di appello di Palermo, che ha riconosciuto l’estraneità del primo e che ha dichiarato la prescrizione del reato nei confronti di Bagarella. I giudici di legittimità hanno avallato la conclusione dei giudici di merito secondo i quali la minaccia mafiosa sarebbe stata rivolta all’Esecutivo, nella sua totalità e non al solo ministro della Giustizia, "da Brusca e Bagarella, con l’intermediazione di Mangano, ma dell’Utri si sarebbe limitato solo a reciceverla, senza sollecitarla, agevolarla, divulgarla in alcun modo a esponenti di governo o comunque, concorrere in alcun modo alla condotta di reato".
Trattativa Stato - Mafia, la Cassazione: "Insussistenti le accuse contro i Ros"
Insussistenti per la Cassazione anche le accuse contro i Ros: "La motivazione della sentenza impugnata evidenzia la strutturale inidoneità della condotta degli ufficiali del Ros a integrare, già sotto li profilo oggettivo, una forma penalmente rilevante di istigazione o di determinazione alla commissione del reato di minaccia ad un corpo politico commesso dai vertici di 'Cosa nostra'". Con queste motivazioni la Suprema corte, ha assolto definitivamente, il 27 aprile scorso il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno. "Invero, la mera apertura di un’interlocuzione con i vertici di “Cosa nostra” - si legge nella sentenza - non può ritenersi essere stata idonea “ex se” a determinare i vertici dell’organizzazione criminale a minacciare il Governo in quanto questo assunto, argomentato nella sentenza impugnata come autoevidente, non è fondato su alcuno specifico dato probatorio, né argomentato sulla base di consolidate massime di esperienza».
Per i giudici l’interlocuzione promossa da Mori e da De Donno con Ciancimino, secondo quanto accertato dalla Corte di merito, aveva infatti lo scopo "di comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di “Cosa nostra” e la ricerca dell’apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale – sottolineano i supremi giudici - non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato".
L’iniziativa degli alti ufficiali del Ros era, infatti, intesa "non già a indurre “Cosa nostra” a rivolgere minacce al Governo – affermano i giudici della Cassazione - bensì al perseguimento dell’obiettivo contrario di far cessare la stagione stragista, cercando di comprendere se le eventuali condizioni poste da quest’ultima potessero o meno essere considerate nella prospettiva di prevenzione di ulteriori attacchi criminali. Nella loro azione, infatti, Mori, Subranni e De Donno miravano al contempo alla «contestuale decapitazione dell'ala stragista o militarista» mediante la cattura dei suoi esponenti, come di seguito avvenuto il 15 gennaio 1993 con l’arresto di Salvatore Rina".
Ad avviso dei giudici dalla sentenza impugnata emerge "un’insanabile contraddizione logica tra l’elemento soggettivo che animava i tre ufficiali del Ros nell’interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una obiettiva valenza agevolatrice della minaccia mafiosa della loro condotta". Una volta escluso, dunque, perché non provato oltre ogni ragionevole dubbio, che gli ufficiali del Ros abbiano riferito la minaccia mafiosa ad esponenti dell’autorità di governo, "risulta che i medesimi si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa, senza sollecitarla, né rafforzare l’altrui intento criminoso – concludono i supremi giudici che hanno assolto gli ex vertici dei Ros con la formula “per non aver commesso il fatto”- Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a “Cosa nostra” è, all’evidenza, insussistente".