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Pina Belli D'Elia, ricordo di figlia: 'Nada sobra mi madre'
Il ricordo di Pina Belli D'elia della figlia Anna, in occasione dell'intitolazione della Sala I della Pinacoteca Metropolitana di Bari "Corrado Giaquinto"
Il ricordo della figlia, Anna, di Pina Belli D'elia, in occasione del compleanno della compianta "Vestale del la Puglia romanica" e dell'intitolazione alla sua memoria della Sala I della Pinacoteca Metropolitana di Bari "Corrado Giaquinto". Mentre Anna leggeva con emozione la sua nota, le parole di Paul Klee: "L'arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è", riecheggiavano nella mia mente e ad un certo punto l'indimenticato e dolce accenno di sorriso di Pina si è materializzato dalle foto sul programma diffuse in sala, confermando la sua vicinaza senza tempo e il suo abbraccio ricco di affetto a tutti. (ag)
di Anna d'Elia
Ho pensato molto a come intitolare questo mio piccolo intervento in una giornata come questa e alla fine ho deciso di chiamarlo Nada sobre mi madre, cui aggiungerei un sottotitolo, Devo molto a quello che non vedo. Questo perché, nell’ascoltare le tante voci di persone e studiosi che a vario titolo l’hanno conosciuta e con lei hanno lavorato, mi rendo conto di non averne in fondo serbato che un ritratto in absentia. La parte più profonda di lei, quella che davvero la strutturava, è rimasta a lungo, forse per sempre, a me ignota. Dell’immenso lavoro dei suoi anni di gioventù, dei suoi fondamentali contributi, mi arrivava all’epoca ben poco, essenzialmente dei nomi (Acceptus, Luca Giordano, Willemsen, Fritz Volbach, Paolo Fenoglio, Géza De Francovich) che vorticavano senza peso nella mia testa e cui attribuivo magici e misteriosi poteri).
Oggi so che a mia madre interessavano le cose, non gli oggetti (non fu mai una collezionista, non praticò mai l’oggettistica compulsiva), le cose in quanto esseri carichi di senso che lei aveva la capacità di ‘sentire’ , di ‘captare’. Le cose che lei riusciva a vedere in rapporto con altre cose e con le persone, i fili invisibili alla base di un reticolo di senso che si estendeva ad inglobare un’epoca, un edificio, un manufatto, un resto. Oggi l’avanguardia del design parla di fine degli oggetti e di avvento delle cose e in questo, come in molto altro, mia madre è stata una pioniera. Lei sentiva le cose e loro le parlavano: questo senso acuminato per i rapporti invisibili ai più, credo sia stato alla base di molte sue essenziali intuizioni. Il suo lungo e fedele dialogo con le cose la portava a considerarle degli esseri viventi, con le loro sensibilità e ritrosie, le loro gratitudini e vendette.
Ricordo un episodio di tanti anni fa, saranno stati forse gli anni Settanta, quando una lampada di resina, molto design, da bassa e tarchiata che era, un bel giorno si allungò (forse per effetto del calore) sino ad assumere una curiosa forma affusolata. Mia madre non si stupì, e con una riflessione che sarebbe piaciuta a Focillon, pensò che la lampada avesse raggiunto un punto di rottura e avesse deciso di mutare forma, abbracciando la propria nascosta natura svettante.
Penso spesso, e credo in questo di non dispiacerle, che il vero ritratto di uno studioso e di uno storico dell’arte stia negli spazi tra le cose che ha studiato, nei vuoti che ha riempito attraversandoli nel tempo. Come per quei romanzi che disegnano un personaggio senza mai descriverlo, ricorrendo al brusio di altre voci, di altri personaggi, il lascito di un grande studioso risiede tra i rapporti che egli crea tra e con le cose. La sua natura tridimensionale e umana verrebbe fuori allora in un calco gessoso degli interstizi, dei buchi, delle assenze:
Le cose non dimenticano
Hanno troppa memoria
Chissà se piangono le cose,
se questo freddo è la loro nostalgia.[1]
Le cose dunque la amavano e le parlavano a lungo dei loro trascorsi da un secolo all’altro, da un luogo all’altro, da un’umana struttura all’altra. Forse per via della sua infanzia devastata dalla guerra, delle sue tragiche esperienze sotto i bombardamenti, lei avvertiva la paura delle pietre che si stringevano terrorizzate davanti a ruspe, scavatrici, recinzioni, imposte da qualche svendita immobiliare, da qualche piano regolatore. Uno dei grandi dolori della sua vita, fu senz’altro il bombardamento di Aleppo e la distruzione della Siria dove aveva tanto viaggiato.
Ma negli ultimi tempi ci sono stati anche momenti bellissimi, in cui ritrovava la gioia della scoperta e del dialogo con nuovi amici: la ricordo felice dentro una macchinetta elettrica che la portava a spasso per i prati della Villa dei Quintili, a Roma. Non l’aveva mai vista ed era stupefatta. La lasciai lì a chiacchierare con le cose. Tornammo a casa in tempo per sfuggire alla sera e all’ombra lunga di Commodo.
Penso che il vero e profondo lascito di mia madre stia qui, nella ricerca di una affettuosa, colta, sapiente, attenta cura delle cose, che ci mostrano, a noi forse più sordi di lei, la loro muta superficie. Perché, parafrasando la grande letteratura:
E’ come se si dovesse sempre aver cura di ciò che esiste alla superficie delle cose, posto che quello che c’è sotto, nella sua immensità inquietante, è perfettamente in grado di avere cura di sé.[2]
Ho visto mia madre.
Nella sagoma di un'altra.
Affacciata al balcone
della casa di fronte
In ombra indifesa
sembrava lei stessa
e mi ha stretto ultima la tenerezza
che per quella vera non posso sentire.
Così ho continuato a guardare.
Parlava al telefono
curvata in un giaccone
che la rendeva
più piccola e più vecchia.
Esposta al gelo
chissà per quale motivo.
Valeva la pena
starsene lì fuori.
Poi mi ha chiamato
la mia e sono stata
più buona non so
con chi.
(Daniela Mazzoli)
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[1] Roberto Carifi, Amorosa sempre, Poesie(1980-2018), La nave di Teseo, 2018
[2] la frase è da me liberamente tratta dal romanzo di Alice Munro, La vista da Castle Rock, Einaudi, 2007, traduzione di Susanna Basso.
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Pubblicato in precedenza: Pina Belli D’Elia, per sempre nella sua PINAcoteca di Bari
Pina Belli D’Elia, l’indiscussa vestale della Puglia romanica