Ergastolo per Pietro Morreale: bruciò la fidanzata 17enne

Il 21enne la guardò morire tra le fiamme, poi gettò il corpo in un fosso. Temeva di essere lasciato

Striscioni di affetto ai funerali di Roberta Siragusa
Cronache

Bruciò viva la fidanzata 17enne Roberta Siragusa: condannato all'ergastolo

La corte d'Assise di Palermo ha condannato all'ergastolo Pietro Morreale, 21enne di Caccamo, per il brutale omicidio della fidanzata Roberta Siragusa, avvenuto la notte tra il 23 e il 24 gennaio del 2020.

Secondo la setenza di primo grado il ragazzo l’ha tramortita colpendola al volto con un sasso, le ha dato fuoco guardandola bruciare viva per cinque interminabili minuti, ha caricato il corpo in macchina ed è andato a disfarsene spingendolo giù in un burrone. Poi è tornato a casa e si è messo a dormire, con una “determinazione criminale” - sono le parole del gip che ne aveva disposto la custodia in carcere - che ha indotto i giudici della corte d’assise di Palermo a comminare il massimo della pena al ragazzo.

La ricostruzione della Procura e la difesa “non credibile”

La notte dell’omicidio l’imputato e la fidanzata avevano avuto l’ennesima discussione, suscitata probabilmente dalla gelosia malata del ragazzo. La coppia aveva passato la sera a casa di amici, poi si era allontanata in auto fino a un campo da calcio: qui, secondo la Procura e ora la sentenza, il 21enne l’avrebbe colpita con un sasso  facendole perdere i sensi, poi le avrebbe gettato addosso del liquido infiammabile che teneva in auto e l’avrebbe arsa viva.

Prima di caricarla in macchina, trascinandola per i piedi, avrebbe chattato con un amico prendendo appuntamento per l’indomani per giocare alla play-station; poi si sarebbe disfatto del corpo e sarebbe andato a letto. Svegliato dai genitori della vittima, preoccupati, per allontanare da sé la responsabilità del delitto aveva inviato al cellulare di Roberta una serie di messaggi fingendosi allarmato.

Morreale ha sempre negato di aver assassinato Roberta, raccontando una storia ritenuta subito dagli inquirenti fantasiosa. La mattina dopo l’omicidio, infatti, si era recato dai carabinieri e li aveva portati dove aveva buttato il corpo, raccontando un’inverosimile versione: dopo una lite - aveva detto - la ragazza si sarebbe data fuoco con della benzina che lui teneva in auto e si sarebbe buttata in una scarpata nella campagne di Caccamo. “Menzogne”, sostennero fin dall'inizio i pm e i legali di parte civile.

Contro il ragazzo, infatti, decine di indizi: dagli episodi violenti commessi contro la vittima nei mesi della loro relazione, ben 33, a un video trasmesso in aula durante l’incidente probatorio davanti alla famiglia della vittima, dove si vede il corpo di Roberta bruciare e l'auto di Pietro a poca distanza. Inoltre vicino al campo da calcio vennero trovate le chiavi di casa della ragazza, oltre che tracce del suo sangue nel veicolo.

Risarcimento alla famiglia, che chiede ancora giustizia

La Corte d'assise ha dichiarato l'imputato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale per la durata della pena, oltre che prevedere il risarcimento del danno nei confronti dei parenti di Roberta, la madre Iana Brancato per 225mila euro, il padre Filippo Siragusa per 229mila euro, il fratello Dario per 209mila euro e la nonna Maria Barone per 117mila euro. Pietro Morreale dovrà risarcire anche il comune di Caccamo con una provvisionale esecutiva di 15mila euro.

Morreale, già in carcere da due anni, non era presente alla lettura del verdetto. Ad attendere invece la sentenza, oltre i genitori, la nonna e il fratello di Roberta, costituiti parte civile, c’era un gruppo di amici con indosso la stessa maglietta: il volto della giovane studentessa di 17 anni, e la scritta “Giustizia per Roberta”. I giovani dopo la sentenza letta dal Presidente Vincenzo Terranova, si sono stretti in un lungo abbraccio.

L’ergastolo a Morreale non chiude, però, il caso: per i legali della famiglia di Roberta, Simona La Verde, Sergio Burgio, Giovanni Castronovo e Giuseppe Canzon, il ragazzo avrebbe avuto dei complici. Lo dimostrerebbe la confusione iniziale nel ritrovare, scortato dai carabinieri, il luogo in cui si trovava il cadavere, “come se non fosse stato lui a portarlo lì”, dicono gli avvocati.

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