Femminicidi e bimbi uccisi, piangiamo sempre dopo ma come prevenire? La proposta di affaritaliani.it

Si fa presto a dire che l’omicida di turno già denunciato per maltrattamenti in famiglia andava messo in carcere...

L'opinione di Elisabetta Aldrovandi*
Cronache
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Femminicidi e bimbi uccisi dai genitori, come prevenire questi delitti? Serve un collegamento diretto, immediato, efficace, tra i servizi territoriali e le autorità giudiziarie

Tragedie evitabili. Così vengono definiti i casi di omicidio in ambito domestico preceduti da denunce o evidenti segnali di violenza e maltrattamenti, o le uccisioni dei propri figli da parte di chi, col senno di poi, presentava atteggiamenti anomali, che avrebbero dovuto far presagire l’irreparabile. Alcuni li considerano efferati delitti che neppure andrebbero accertati quanto al movente o alla stabilità mentale del colpevole.

Chi li commette deve essere sbattuto in carcere a vita. Perché è troppo grave quello che ha fatto, e non esiste nulla che potrà riparare il danno arrecato. Altri pensano che sia giusto capire le motivazioni, emotive e psicologiche, ed eventualmente la presenza di patologie psichiche, che hanno portato a compiere certe azioni, così come il passato dell’assassino, che può avere inciso sulla sua personalità e quindi sulla sua condotta.

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Siamo in uno stato di diritto. Anche di fronte a una piena confessione, il processo va celebrato, e la pena deve essere proporzionata alla gravità del fatto commesso, ma deve anche avere funzione rieducativa. Perché sì, esiste il convincimento, purtroppo spesso trasformato in illusione, che anche il peggiore dei criminali possa essere riabilitato, possa “convertirsi” alla convivenza civile e al rispetto delle leggi. Ci si aspetta tanto, dalla “giustizia”.

Pure la funzione preventiva, ossia quel potere di eliminare il rischio di reati più gravi interpretando quelli denunciati, come abusi o violenze, neanche accertati in via definitiva, sulla base di valutazioni discrezionali di giudici che non hanno competenze specifiche, ma devono decidere in fretta e facendo riferimento a denunce a volte neppure supportate da elementi di prova.

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Si fa presto a dire che quell’omicida già denunciato per maltrattamenti in famiglia andava messo in carcere e non tenuto in libertà. Ma se non esistono presupposti di legge adeguati per giustificarne la limitazione di libertà personale, il provvedimento cautelare rischia di essere annullato alla prima richiesta dell’avvocato difensore. E per essere rinchiusi in carcere prima di una condanna definitiva servono elementi molto gravi circa il rischio di recidiva, di fuga o inquinamento delle prove. Invece, si chiede assai poco, alla “società”.

Cosa possiamo fare, noi, comuni cittadini, vicini di casa, parenti, colleghi di lavoro, che veniamo a conoscenza di situazioni di disagio o violenza? Di certo, possiamo segnalare alle autorità preposte, al sindaco e ai servizi sociali dei nostri comuni. Di certo, non dobbiamo voltarci dall’altra parte. Ma queste autorità, una volta interpellate, devono vigilare scrupolosamente, e verificare se realmente esiste un pericolo per la vittima, che magari ancora non ha denunciato. Perché ha paura, o perché è incapace di rendersi conto del male che sta subendo.

Questo, manca. Un collegamento diretto, immediato, efficace, tra i servizi territoriali e le autorità giudiziarie. Una comunicazione rapida, che tenga informati in tempo reale coloro che possono adottare decisioni importanti, nel solo interesse di chi subisce, e non riesce, o non può, difendersi. Servono risorse. Per il personale, la formazione, gli strumenti. Altrimenti, saremo qui, ogni giorno, a contare le vittime che si potevano evitare. E che invece, sono state sacrificate.

*Elisabetta Aldrovandi - Presidente dell’Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime 

 

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