Italia-Libia: tra migranti, petrolio e il business di Matteo Messina Denaro
"Sulla pelle dei disperati ognuno fa i propri interessi: dalla politica a chi ci ricatta per soldi"
Intervista a Nello Scavo, autore di "Libyagate"
Quando le organizzazioni internazionali hanno iniziato a parlare dei crimini di guerra perpetrati nel conflitto Russia-Ucraina, l'opinione pubblica europea si è giustamente scandalizzata, chiedendo chiarezza. Eppure, fatti identici si verificano da anni in Libia, ma alle numerose denunce non fa seguito un analogo interessamento da parte dell'informazione. Affaritaliani.it approfondisce il tema con Nello Scavo, firma di punta de “L'Avvenire”. Le sue inchieste giornalistiche gli sono valse diversi premi (meritatissimi), ma anche gravi minacce, per le quali è stato necessario metterlo sotto scorta. Per nulla intimorito, Scavo ha appena pubblicato “Libyagate – Inchieste, dossier, ombre e silenzi” (Vita e Pensiero, 102 pagine, 13 euro), che squarcia il velo dell'omertà su quanto sta accadendo.
Perché sul dramma libico ci sono tante reticenze?
“Credo che sia per il forte imbarazzo creato dal coinvolgimento diretto di diversi esponenti politici, dell'economia e della finanza, sia italiani che maltesi. Ci sono state inoltre condanne nei confronti di torturatori che agivano in quei campi di prigionia che l'Italia sostiene, direttamente o indirettamente. Ad esempio, poco dopo il famoso scontro della nave di Carola Rackete con una motovedetta a Lampedusa, vennero arrestati tre migranti, in quanto riconosciuti da altri migranti come loro torturatori. Ciascuno di loro ha ora sulle spalle una condanna di secondo grado a vent'anni e con il beneficio del rito abbreviato, altrimenti gli anni sarebbero stati trenta. Inizialmente si accese una polemica da parte di chi sosteneva che le ONG portassero in Italia dei delinquenti, ma poi la discussione si è spenta, probabilmente perché si è capito che questi torturatori lavoravano nei campi di prigionia statali libici, sui quali l'Italia e l'Europa hanno una cattiva coscienza. E allora si preferisce tacere”.
E, nel silenzio, gli accordi tra Italia e Libia vanno avanti ormai da tempo, anche se cambiano i governi...
“Infatti: gli accordi si sono rinnovati automaticamente giovedì 2 febbraio, come avviene da programma ogni due anni. E siamo quindi arrivati al sesto anno”.
Eppure di motivi di ripensamento ce ne sarebbero molti, sia da parte di chi critica il comportamento delle ONG, sia da chi invece sottolinea che in Libia sono in corso crimini contro l'umanità del tutto simili a quelli denunciati in Ucraina...
“Crimini anche peggiori, per certi versi, perché documentati da tanti anni. Tra la Corte Penale Internazionale de L'Aia e il rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite, sono almeno 24 le relazioni che denunciano queste violazioni, facendo nomi e cognomi. Sulle inchieste di giornali e ONG ognuno può avere l'idea che vuole, ma è dal 2011 che sono le istituzioni a documentare questi fatti, con aggiornamenti trimestrali. Da tempo mi chiedo perché non si faccia una commissione parlamentare su quello che accade nel Mediterraneo, compreso il ruolo delle ONG, così da fare luce su tutto ed eventualmente sanzionare chi lavora nell'ombra. La risposta è sempre il silenzio”.
Come te lo spieghi?
“Probabilmente perché da un'inchiesta verrebbero fuori cose imbarazzanti, come le visite in Italia di esponenti libici malfamati. Basti pensare che il nuovo sottosegretario all'Interno libico Trabelsi (che di recente ha incontrato la delegazione del governo italiano) dal 2018 è segnalato dagli ispettori ONU come uno dei principali trafficanti di petrolio: si farebbe pagare 3.500 dollari per ogni autocisterna di nafta che si reca in Tunisia. Tutto è abbastanza alla luce del sole, ma la cosa complicata è stata scoprire le connessioni: che cosa lega un boss libico a Matteo Messina Denaro? C'è voluto del tempo per farlo emergere”.
Che legame avete scoperto? E cosa cambia dopo l'arresto di Matteo Messina Denaro?
“Probabilmente si troveranno nuovi terminali, perchè la mediazione era soprattutto attraverso i clan catanesi e maltesi. In provincia di Trapani c'era un 'deposito fiscale' di idrocarburi con un giro di affari di diversi milioni al giorno, dove si è scoperto che finiva buona parte del petrolio contrabbandato dalla Libia. Qui si erano infiltrati dei prestanome di Matteo Messina Denaro, ma poi è stato posto sotto il controllo del Tribunale. Ora si spera che le cose funzionino meglio, anche se tempo fa c'è stato un caso paradossale: alcune nostre navi davano la caccia ai contrabbandieri ma si rifornivano proprio in uno dei loro depositi, all'insaputa della Marina Militare! Le mafie una scappatoia la trovano sempre”.
Quindi, la situazione della Libia è il frutto di interessi che si intrecciano tra di loro: da quelli dei politici europei che vogliono limitare l'arrivo dei migranti a quelli di chi invece punta a fare soldi?
“E' proprio così, soprattutto in questo periodo di crisi energetica. Infatti in Libia ci sono fortissime tensioni: qualcuno ha disconosciuto l'accordo con l'Italia e c'è stato un calo delle esportazioni di gas proprio nel giorno della visita di Giorgia Meloni. Le milizie che controllano la sicurezza degli impianti petroliferi statali libici (dati in concessione a privati esteri) sono le stesse che si occupano del traffico di esseri umani e di armi. Il caso di Zawyah è esemplare perché non è stato intercettato 'solo' il traffico di persone e di petrolio, ma anche quello di droga in arrivo dall'America centrale, con navi destinate all'Italia. Tra i miliziani che si occupano di queste faccende, il caso più famoso è quello di Bija, a lungo capo della guardia costiera di Zawyah ed accusato di fare traffici di petrolio proprio da quel porto. Lui si è sempre difeso dicendo che sequestrava le petroliere dei trafficanti, ma noi siamo riusciti a ricostruire che in realtà lo faceva, sì, ma a danno dei clan avversari”.
Quindi, sulla pelle dei migranti si sta giocando un enorme business economico?
“Pretendere il rispetto dei diritti umani è difficile, da parte di un interlocutore che ha il coltello dalla parte del manico: se l'Europa vuole il gas, è costretta a trattare con questa gente. Mi rendo conto che la politica ora si trovi a gestire una situazione molto complicata, ma questo dipende dal fatto che per anni si è legittimato un sistema di relazioni che ci ha posti in questa condizione. Sono questi personaggi ad aprire e chiudere i rubinetti. Non sarà un caso che le partenze dei migranti siano calate subito dopo i recenti accordi da otto miliardi, una cifra che può cambiare la vita di un Paese nel quale risiedono appena 5/6 milioni di persone. Il mare non è particolarmente mosso, eppure il flusso è rallentato. Ma credo che a brevissimo i barconi ripartiranno, per poi ricominciare la trattativa”.
Come si può uscire da questo circolo vizioso?
“Potrei dire che non compete a me trovare le soluzioni, ma non faccio il pusillanime. Dico invece che più si fanno affari con i boss, più sarà difficile trovare una via d'uscita. Abbiamo fatto chiaramente capire ai libici che abbiamo paura dell'arrivo dei migranti e quindi siamo sotto ricatto. Sanno che possono condizionare le carriere dei politici europei, soprattutto di chi ha promesso al suo elettorato di bloccare o almeno rallentare gli sbarchi. Ogni barcone che parte, è un segnale all'Europa”.
Nel libro racconti la barbarie delle torture che avvengono nei lager libici. Come si spiega un livello così elevato di crudeltà? E' solo per spingere i prigionieri a pagare un riscatto ed essere liberati o c'è di più?
“C'è di più. Esiste una forma di razzismo, soprattutto nei confronti dei subsahariani, che vengono considerati esseri inferiori. Lo stupro, molto praticato anche sugli uomini, ha proprio lo scopo di umiliare le vittime. È diverso per altre etnie, come ad esempio i bengalesi, che vengono comunque trattati molto male, persino torturati e uccisi, ma non nel modo sistematico che invece riguarda i subsahariani. L'escalation della malvagità di torture e abusi è quotidiana, con nuove tecniche sempre più crudeli. A volte la violenza estrema serve anche per 'dare l'esempio' e tenere sotto controllo grossi gruppi di prigionieri (fino a 1.500) che, coalizzandosi, potrebbero rivoltarsi contro i carcerieri. Il regime di terrore che hanno instaurato lo rende impossibile: infatti non ci sono mai state rivolte di massa. E poi il sogno di rimanere vivi per poi arrivare in Europa è così forte che spinge i prigionieri a subire qualunque tortura, senza cercare la fuga”.
Un vero e proprio inferno...
“Certo, il quadro complessivo non è incoraggiante, ma è importante parlarne e fare delle inchieste, anche a livello internazionale. 'Libyagate' prende il nome dall'inchiesta ha coinvolto personaggi vicini al governo laburista maltese, legati alla criminalità organizzata, a loro volta sottoposti ad indagine per l'uccisione della giornalista Daphne Caruana Galizia, vittima di un attentato dopo le sue inchieste. Il meccanismo è molto intricato, complesso (e costoso) da seguire anche sul piano giornalistico. Noi lo abbiamo fatto, ma alternandoci con il Guardian e Irpimedia. Questo risponde anche alla tua domanda iniziale sul perché se ne parli poco. Invece è fondamentale farlo e ringrazio te ed affaritaliani.it per l'attenzione. A furia di insistere, qualcosa si sta muovendo”
Quali sono gli ultimi sviluppi?
“Premetto che la Libia, come noto, non fa parte della Corte penale internazionale. Tuttavia i giudici de L'Aia sono potuti intervenire perché c'è stata una richiesta (un 'referral', in gergo tecnico) da parte del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Tale mandato ha autorizzato le indagini solo sui crimini di guerra, non sugli altri. Però fortunatamente è passato il principio che anche i crimini sui migranti siano considerati crimini di guerra, perché sono parte integrante del conflitto in Libia. E' stato quindi un passaggio fondamentale. Sappiamo che poche settimane fa la procura ha chiesto dei mandati di cattura internazionali, ma i nomi degli interessati non sono ancora noti, perchè si attende che il tribunale convalidi questa richiesta”.