Mps, Ita, nomine, Superbonus: tutte le partite di Giancarlo Giorgetti

Il ministro dell'Economia è gravato da mille problemi: da quelli interni con la Lega fino alle bollette, passando per le concessioni balneari

di Marco Scotti
Economia

Tutti i dossier di Giancarlo Giorgetti

Giancarlo Giorgetti ha un problema. Anzi, ne ha almeno nove. E non parliamo di equilibri politici interni della Lega o di altri giochi di palazzo. No, Giorgetti si trova di fronte alla partita più difficile della sua lunghissima carriera politica. C’è il tema del Superbonus, che è vero che ha creato un effetto “allucinogeno” (copyright suo) sul mercato, ma intanto – conti alla mano – rappresenta un peso che ha portato il deficit all’8% del pil, come recita la Nadef. Ma non può essere cancellato con un tratto di penna lasciando in braghe di tela imprese, lavoratori e privati cittadini che vogliono rifare le facciate delle loro abitazioni. Né però si può continuare ad alimentare un sistema che ha drogato il mercato e ha creato una sorta di moneta parallela (derivante dalla cessione dei crediti). Giorgetti non ha neanche l’alibi di poter dire “colpa di chi c’era prima”, perché era membro forte del precedente esecutivo in cui era ministro dello Sviluppo economico

C’è l’enorme capitolo delle nomine, con Eni, Enel, Terna, Poste e Leonardo che aspettano con trepidazione di conoscere chi le guiderà nel prossimo triennio. Qui il mal di testa a Giorgetti rischiano di farlo venire un po’ tutti: Giorgia Meloni, che vuole gestire in prima persona i dossier e vorrebbe lasciare agli alleati solo le presidenze e qualche poltrona in consiglio; la Lega, che non a caso ha iniziato a sparare ad alzo zero contro Eni ed Enel cercando di far sentire il suo peso specifico, sgomitando con Forza Italia per un posto al sole; gli stessi manager – Descalzi in testa – che vogliono vederci chiaro sugli attacchi frontali. Senza contare Leonardo, dove sembra addirittura che Giorgia Meloni sia pronta a far restare Alessandro Profumo, magari come presidente, promuovendo Roberto Cingolani. E Salvini, che preme per Lorenzo Mariani, potrebbe rimanerci molto male. 

C’è il tema di Ita, che dovrebbe avviarsi verso una conclusione positiva con Lufthansa. Ma le sorprese non sono mai mancate (l’accordo con Certares sembrava fatto e poi…) e quindi è meglio non farci troppo la bocca. Non può trattarsi di una presa all’arma bianca dell’ex-Alitalia, che ha appena rinnovato il contratto dei dipendenti e resta una delle compagnie migliori con cui volare. C’è da capire che cosa fare con la direzione generale del Mef, dove l’arrivo di Riccardo Barbieri ha lasciato di stucco gli analisti e ha costretto ad annunciare che con ogni probabilità si procederà a uno spacchettamento delle deleghe almeno per quanto riguarda le partecipate. Per metterci chi? Repubblica oggi dava per tramontata la figura di Antonino Turicchi, presidente esecutivo di Ita che vedrà scadere il suo mandato tra un paio di mesi. Ma è sicuro che Giancarlo Giorgetti abbia patito e non poco l’addio ad Alessandro Rivera, che aveva gestito le partite più difficili negli anni passati. 

Giorgetti deve sciogliere il nodo Mps

C’è Mps, che meriterebbe un racconto a parte perché oltre alla scadenza del consiglio di amministrazione – Patrizia Grieco si è già chiamata fuori, Luigi Lovaglio resiste ma chissà se vorrà fare un altro giro di giostra dopo il taglio degli emolumenti – vedrà anche la necessità di avviarne la privatizzazione. Non è un’urgenza, l’Europa sembra aver allentato la presa dopo che la banca senese è uscita dalla blacklist, ma certo non può rimanere per sempre a partecipazione pubblica. Però sul Monte il governo si gioca una buona fetta della sua credibilità. Se Lovaglio dovesse decidere di andare altrove, chi potrebbe prendere il suo posto? Chi accetterebbe di venir pagato il 90% dei pari grado in Italia? E poi c’è il tema dell’aumento di capitale, riuscito – ma pagato 125 milioni di commissioni alle banche – che ha rappresentato un bel punto di svolta. 

E allora perché i francesi di Axa hanno venduto rapidamente le loro quote garantendosi 33 milioni di plusvalenza? C’è chi dice che la fuga rappresenti un bell’assist per il governo, che si ritrova un’azienda che sul mercato è appetibile e che quindi potrebbe iniziare a essere lentamente collocata in Borsa, magari diluendo la quota del Mef. Ma anche qui va deciso il futuro: meglio cedere a qualcuno? E a chi? Bpm per bocca del presidente Massimo Tononi, che Siena la conosce bene essendone stato presidente per quattro anni, ha dichiarato una volta di più di non essere interessato. Hai voglia a invocare la moral suasion: se il Banco non vuole comprare non può essere costretto a farlo. Unicredit aveva chiesto 6,3 miliardi di dote non perché Andrea Orcel sia un furbacchione, ma perché c’erano alcune grane da sistemare. Ora la situazione è migliorata, ci mancherebbe. Ma nessuno al momento sembra voler lanciare un’opa su Siena. 

Giorgetti sfoglia la margherita su Tim, Cdp e non solo

C’è da capire che cosa fare con Kkr e Tim e la rete unica. È vero, è un dossier prevalentemente in capo al Mimit di Adolfo Urso – in coabitazione con il sottosegretario Alessio Butti – ma al tavolo introduttivo di dicembre ha partecipato anche il Mef. E dunque Giorgetti anche sulla delicatissima partita che coinvolge la rete dell’ex-Telecom dovrà dire la sua. Qui ci si gioca una fetta di futuro del nostro Paese. Gli americani di Kkr hanno offerto 27 miliardi (tutto compreso) per la rete. Vivendi risponde che i 31 miliardi che chiede non sono frutto di una cifra sparata a casaccio ma di precise valutazioni e quindi da lì non ci si muove. Che fare? Spingere su una soluzione ibrida Kkr-Cdp? Mettere mano alla Cassa, sapendo che l’Antitrust alzerebbe più di un sopracciglio di fronte a un soggetto che detiene sia la rete ex-Tim, sia il 60% di Open Fiber. 

Ancora: il Mef ha l’82,7% delle quote di Cassa Depositi e Prestiti, il braccio armato della nostra economia che dovrà gestire i soldi del Pnrr. Qui l’urgenza non è immediata, ma l’anno prossimo andrà in scadenza anche il consiglio di Via Goito. Dario Scannapieco, l’attuale ceo, viene indicato come “Draghi-boy”. Non è solo quello, avendo lavorato con Domenico Siniscalco e Giulio Tremonti. Ma non è un mistero che Fratelli d’Italia, con la Meloni in testa, non sia esattamente entusiasta dell’economista. 

C’è il tema concessioni balneari, approvato con il Milleproroghe, che ha sancito la proroga di un anno delle attuali condizioni. Che c’entra Giorgetti? C’entra eccome. Intanto perché è il ministro dell’Economia e poi perché lo scorso anno, a febbraio, si assistette a un misterioso balletto. I leghisti Giorgetti e Garavaglia (che allora era ministro del Turismo) avocarono a loro la responsabilità di decidere il da farsi. Poi si resero conto che sarebbe stato un bagno di sangue e che i sovranisti difficilmente avrebbero apprezzato una revisione delle condizioni. E dunque ecco che 40 giorni dopo riconsegnarono la patata bollente – pardon, dossier – nelle mani di Mario Draghi. Il quale non riuscì a raggiungere una soluzione definitiva e quindi rimpallò il tema all’attuale esecutivo. Che l’ha risolta all’italiana, prorogando. 

C’è il nodo delle bollette che – è vero – sono scese ma scontano una componente energia che costa tra le due e le tre volte in più rispetto a 12 mesi fa. Buona parte dei soldi della Legge di Bilancio sono stati messi per evitare che le piazze si riempissero di aziende che non potevano più avviare i macchinari e di famiglie che vivevano a lume di candela e scaldavano i viveri con l’accendino. Ma qualcosa bisognerà fare, non si può immaginare che si continui a dipendere dalla mano pubblica.

Giorgetti, una lunga carriera politica

Chi conosce Giancarlo Giorgetti ha dichiarato ad Affaritaliani.it che in questo momento sta vivendo un periodo complicato. La Lega non lo riconosce perché troppo europeista, liberale, “draghiano”. Giorgia Meloni, che pure l’ha voluto in Via XX Settembre, gli ha piazzato alle calcagna un fedelissimo come Maurizio Leo, a riprova di una fiducia non proprio illimitata. In Europa non è esattamente tra i membri più in vista, basti pensare che, non più tardi di un mese fa, ha dovuto battere i pugni (a suo modo) stigmatizzando la visita congiunta dei ministri dell'Economia francese e tedesco, Le Maire e Habeck, a Washington. “L'avesse fatto l'Italia – aveva detto al Corriere -, questo governo sarebbe stato accusato di essere sovranista e antieuropeo. Saremmo sotto processo". Che ricorda un po’ la storia della volpe e l’uva. 

Insomma, dopo aver fatto per nove anni il sindaco di Cazzago Brabbia; dopo essere stato eletto deputato per sette volte; dopo, infine, essere stato Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel Governo Conte I e ministro dello Sviluppo Economico con Draghi, oggi Giorgetti si trova vittima del suo essere “sui generis” sotto tanti punti di vista. Troppo atlantista per essere un leghista doc; troppo liberale per convincere Fratelli d’Italia. Troppo moderato per i sovranisti, tanto che fu chiamato nel 2013 da Giorgio Napolitano tra i dieci “saggi” che dovevano individuare punti di convergenza tra centro-sinistra e centro-destra dopo l’impasse delle elezioni politiche. Il suo sodalizio con Mario Draghi è stato inossidabile. E c’è da scommettere che ogni tanto, anche se non potrà mai ammetterlo, lo rimpianga. Sente la mancanza di qualcuno con cui condividere il peso del potere, enorme, che gli è stato conferito
 

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